Recensione: Beyond the Red Mirror
Essere fan dei Blind Guardian è un po’ come essere appassionati di vini pregiati. Bisogna avere la pazienza di aspettare che ogni disco invecchi a sufficienza, anche anni se necessario, prima di poterlo ascoltare. E anche allora c’è bisogno che decanti poco alla volta, prima nelle nostre orecchie e poi nelle nostre menti, per poterlo apprezzare appieno, dall’inizio alla fine, compreso quel vago retrogusto che ci rimane dentro e ci accompagnerà ancora a lungo (speriamo fino all’uscita del prossimo album).
A questo giro i bardi di Krefeld sono stati anche più celeri del solito, infatti ci han messo solo cinque anni a confezionare questo “Beyond the Red Mirror”. Un tempo giustificato dal fatto che la macchina produttiva da mettere in moto, in questa occasione, era davvero impressionante: due diversi cori coinvolti e tre diverse orchestre di circa 90 elementi l’una. Ovviamente gli appassionati non posson che esser contenti di questa uscita, mentre a noi non rimane che verificare se il gruppo abbia mantenuto gli alti standard a cui ci ha abituato e, soprattutto, le aspettative dei fan.
Innanzitutto bisogna dire che “Beyond the Red Mirror” è un nuovo importante tassello nella discografia del gruppo. Non solo perché è appena uscito, ma soprattutto per il contenuto. Finora, infatti, i Blind Guardian avevano confezionato un solo concept-album, “Nightfall in Middle-Earth”, dedicato al Silmarillion di Tolkien. La passione di Hansi e soci per la letteratura fantastica, dal fantasy, all’horror, alla fantascienza, nonché per tutta la produzione fantastica in film, tv, videogiochi, è ben nota. Innumerevoli sono le canzoni dedicate a singoli volumi, a saghe o a serie-tv, fin da quel primo “Battalions of Fear” che fece esordire i bardi di Krefeld. Perfino l’ultimo “At the Edge of Time” era tutto dedicato alla produzione fantasy mondiale, con anche più brani ispirati alle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George R. R. Martin, alla Ruota del Tempo di Robert Jordan, all’immancabile Elric di Melniboné di Michael Moorcock, etc.
Dopo “Nightfall in Middle-Earth” ecco che il guardiano cieco torna a confrontarsi con la complessa e difficile sfida del concept-album (una sfida che solo in pochi son riusciti a superare degnamente). Complicato, inoltre, dire se il concept sia basato su un soggetto originale o meno. Si tratta, idealmente, del prosieguo di “Imaginations from the Other Side” e, in particolare, dei testi di “Bright Eyes” e “And the Story Ends”. Là avevamo visto Arthur, il protagonista, scoprire come lo specchio fosse una sorta di porta per un altro mondo, oltre lo specchio rosso dovremmo scoprire cosa gli è successo e quali avventure ha vissuto. In realtà l’uso del condizionale non è scontato, perché la narrazione in “Beyond the Red Mirror” è tutt’altro che semplice o lineare (insomma, complicate le canzoni e complicata la storia!). Di certo ci troviamo di fronte a una lunga storia che affonda le radici nel ciclo arturiano (Arthur, infatti, ha diversi punti di contatto con Artù non solo nel nome), ma da cui sembra emergere anche tutta la passione di Hansi e soci per la letteratura d’immaginazione. Una passione che si nota nei nomi dei personaggi (si parla di un certo Pelleas, come un cavaliere della tavola rotonda di secondo piano, di un personaggio di nome Camlann, come il luogo dell’ultima battaglia di Artù, il Fallen Son è chiamato Mordred, come il figlio di Artù e Morgana, altri, invece, derivano i propri nomi da demoni e altri scritti, culture e religioni, come Belial, Abaddon o le Norne, ma c’è spazio anche per il Corvo, uno dei protagonisti di tutta la vicenda, animale molto presente e ricco di significati nella mitologia norrena), dei luoghi (più volte si fa riferimento ad Avalon o al fiume Stige), nelle situazioni (un mondo che vive di onde cicliche, che continuano ad andare avanti, come ne la Ruota del Tempo, ma anche l’unione indissolubile tra il Re e la Terra citata in “The Throne“, che riporta alla mente alcuni concetti del film “Excalibur” di John Boorman) e in tante altre piccole situazioni che si possono notare leggendo i testi. Il risultato è, da una parte, una sorta di enorme puzzle di elementi apparentemente presi a prestito da altri, ma che al contempo sembrano creare un universo coerente, affascinante e coinvolgente, con anche punte di originalità. Dall’altra vi è, immancabilmente, un’ombra di confusione dovuta al fatto che tutto è raccontato principalmente attraverso le canzoni, che però non sono mai narrazione lineare di qualche evento, ma sensazioni, emozioni, spaccati estemporanei di qualcosa di più grande. Le immagini che illustrano il libretto, poi, aggiungono un ulteriore livello di coinvolgimento e di meraviglia, quasi fossero i concept grafici di un blockbuster-movie di prossima uscita. L’impressione generale è che tutta questa storia non sfigurerebbe se messa su carta da qualche romanziere. Se fosse già successo, sinceramente, saremmo curiosi di provare a metterci sopra le mani, ma siamo altresì certi che potrebbe trovare dei lettori anche se fosse un’opera nuova e originale, indipendentemente dal suo legame con il nome dei Blind Guardian.
Ma lasciamo momentaneamente da parte i testi e passiamo a parlare della componente più prettamente musicale del disco.
Si inizia con “The Ninth Wave“, aperta da una lunga intro condotta dal coro, il sapore epico e magniloquente dell’orchestrazione non può che riportare alla mente i “Carmina Burana” di Carl Orff o i passaggi più imponenti della produzione di Wagner come “La Cavalcata delle Valchirie”. Quando irrompono le chitarre il passaggio è come sempre fluido, come se la melodia evolvesse naturalmente dagli archi e dai fiati agli strumenti elettrici. Si tratta di un pezzo orecchiabile, estremamente coinvolgente, il cui ritornello si stampa subito in mente.
Si ha subito l’impressione che “At the Edge of Time” abbia lasciato un segno nel gruppo nel modo di strutturare i dischi e di scrivere certi pezzi. “The Ninth Wave”, infatti, ricorda sotto molti aspetti, pur essendo una canzone completamente diversa, “Sacred World” con la sua intro sinfonica e il modo in cui evolve e viene portata avanti.
Già da questo primo pezzo, però, si evidenzia marcatamente una caratteristica destinata a far storcere un po’ il naso ad alcuni dei fan della prima ora. Le chitarre, uno dei principali marchi di fabbrica dei componimenti dei Blind Guardian, a volte sembrano un po’ sparire nella melodia, soffocate o sovverchiate dagli strumenti dell’orchestra. “Beyond the Red Mirror”, infatti, è forse il disco della carriera del guardiano cieco con maggiore presenza di elementi sinfonici (anche più del discusso “A Night at the Opera”) e che, probabilmente, maggiormente dovrebbe lasciarci presagire cosa potremo trovare nel tanto atteso, rimandato e speculato album orchestrale, che ormai fa parlare di sé da più di dieci anni. Eppure, al contrario, è anche l’album in cui i Bardi di Krefeld sembrano guardare maggiormente al passato, a un certo modo di scrivere la musica e le tracce, con un piglio aggressivo che non sentivamo da tempo.
“Twilight of the Gods“, non a caso scelta come singolo apripista, è la canzone che meglio sembra incarnare tutte le anime di questo album. Forse non la più bella (per quanto sia difficile trovare brutti brani nella discografia di Hansi e soci), ma di certo quella che meglio riassume tutto il disco e tutti i suoi elementi.
Di volta in volta, da una traccia all’altra, sembrano emergere più i “vecchi” Blind Guardian o i “nuovi”. “Holy Grail” è, probabilmente, la più antica tra le canzoni qui presenti (quasi che spuntasse fuori direttamente da “Imaginations from the Other Side”, se non ancora prima), in buona compagnia di “Ashes of Eternity“, mentre “At the Edge of Time” (un titolo che sembra piacere molto alla band, visto che era anche quello del precedente disco, ma in realtà qui il riferimento è diretto al testo di “And the Story Ends”) strizza maggiormente l’occhio agli ultimi componimenti più vicini al prog. Proprio nella quarta traccia si sentono vaghi accenni sia alla lunga suite finale dell’ultimo album che a “Fly”, una delle canzoni più discusse di “A Twist in the Myth”.
E sempre al disco del 2006 ci si ricollega quando inizia “Miracle Machine“, una ballad estremamente coinvolgente ed emozionante, come mancava da qualche tempo nelle uscite dei bardi di Krefeld, che riporta alla mente “Skald & Shadows”, ma ancora meglio (per la serie: “meglio poche, ma buone”), così come i Queen, un gruppo che Hansi sembra ben conoscere, e non da oggi.
Tutto fortemente e prepotentemente Blind Guardian, dunque, eppure c’è un pezzo che suona come non si era mai sentito in tutta la loro discografia: “Distant Memories“. Purtroppo lo si può trovare solo nella versione limitata in digipack del disco, piazzato in mezzo alla scaletta al sesto posto, ma davvero viene da chiedersi quale gruppo si stia ascoltando in quel momento.
Sul fronte novità, dunque, “Beyond the Red Mirror” non può dirsi un completo cambio di rotta da parte di Hansi e soci, al contrario è quanto di più simile a un passo indietro (almeno su alcune canzoni) abbiano mai fatto in tutta la loro carriera. Forse per la prima volta non inventano nulla di nuovo e di diverso, non evolvono a un livello superiore la loro proposta musicale, ma si accontentano di fare quello che sanno fare bene, andando a ripescare anche qualcosa dai tempi passati. Eppure, nonostante tutto, sfornano un album sublime, coinvolgente ed emozionante, di grandissima complessità e allo stesso tempo capace di suonare immediato ed orecchiabile. Riescono a far contenti (o, forse, a scontentare) contemporaneamente sia i vecchi fan, delusi dall’aver perso per strada certe soluzioni e una certa aggressiva semplicità, sia i nuovi, ammaliati dall’uso delle composizioni progressive, dai cori e dalle orchestrazioni.
Per concludere, i Blind Guardian sono tornati. Sono tornati nei negozi, ma sono anche tornati indietro di un paio di decine d’anni come stile compositivo, aggressività e potenza, pur senza dimenticare l’apporto magniloquente dei cori e delle orchestrazioni che contraddistinguono le ultime uscite. Lo specchio rosso della copertina e del titolo, che a tanti potrebbe aver ricordato quello che faceva bella mostra di sé su “Imaginations from the Other Side”, non è stato messo lì a caso. Il riferimento, chiaro ed esplicito, è sia al prosieguo del concept iniziato nel disco del 1995 che allo stile e al modo di scrivere le canzoni. E’ un nuovo, l’ennesimo, equilibrio tra le anime di questa band, sempre nuovo eppure fedele a sé stesso. Soprattutto sempre di alta, altissima qualità. Forse maggiore peso alle chitarre in fase di mixaggio avrebbe donato ulteriore impatto a questa uscita, così come le orchestre e i cori avrebbero meritato maggiore profondità di suono così da suonare davvero sontuosi e magniloquenti, ma se questo è l’unico difetto che si riesce a trovare in questo disco, ben vengano mille “Beyond the Red Mirror”. Come sempre, la lunga attesa è stata ripagata fino in fondo. Quattro, cinque anni sono tanti, ma è il prezzo da pagare per avere album mai banali o ripetitivi ed, evidentemente, per non fare mai un passo falso.
Insomma, come dicevamo: i bardi sono tornati. Lunga vita ai bardi!
Alex “Engash-Krul” Calvi