Recensione: Big Bang Theory
Seguendo la strada intrapresa dai Rush con Feedback, anche gli Styx si lasciano andare alla nostalgia, e sfornano un cover album dei pezzi che devono in qualche modo aver segnato la carriera della band di Chicago.
Ed ecco che le carte vengono scoperte una volta per tutte, a conferma di quanto si possa essere detto e taciuto sulle maggiori influenze di Tommy Shaw e soci. Anni ’60 e ’70, ovviamente. The Beatles su tutti, ovviamente.
Della band di Liverpool si propone soltanto una song, quella “I Am The Walrsu” (qui in versione finto-live) che, registrata dagli Styx per la prima volta nel 2004, aveva lanciato l’idea di un disco tributo ai grandi del rock ‘n’ roll. Tuttavia il sound degli “scarafaggi” emerge prepotentemente in tutti i brani proposti, giustamente amalgamato all’inconfondibile manierismo teatrale degli Styx.
Dopo un album cruciale come Cyclorama del 2003, l’attesa fatica in studio riserva non poche sorprese, a partire dalla line-up, dove lo storico bassista Chuck Panozzo cede il passo al giovane Ricky Phillips (ex Bad English, Coverdale/Page), dopo che già nel 2003 Lawrence Gowan aveva sostituito l’amatissimo Dennis DeYoung. Della formazione originale rimangono dunque i soli Shaw (e ci mancherebbe altro) e James Young, con Todd Sucherman nella band già dal 1996. Interessanti anche le apparizioni dei due guest, Koko Taylor, grande interprete blues, e Johnnie Johnson, pianista di fama internazionale, noto per le collaborazioni con Chuck Berry.
Tommy Shaw, James Young e Lawrence Gowan si spartiscono le vocals dei pezzi in scaletta, e quest’ultimo esordisce con la sopra citata “I Am The Walrus”, apparsa nel 1967 nel Magical Mystery Tour. Irriverente, istrionica, perfettamente calata nello Styx sound che ne fa un vero e proprio musical, la song apre le danze per “I Can See For Miles”, il microfono passa a Shaw, e all’interpretazione che fu di Roger Daltrey si aggiunge un misto di Yes e Styx, soprattutto nei cori, che non estrapola troppo la song dal lontano 1967, quando i The Who la includevano in Who Sell Out. “Can’t Find My Way Home”, classico dei Blind Faith (1969), vede Tommy impegnato in un country blues pacato e tutt’altro che dinamico, forse non congeniale alla composizione degli Styx, ma oltremodo brillante. Ancora un blues d’assalto con James Young e la sua versione di “It Don’t Make Sense”, resa famosa da Willie Dixon, e qui impreziosita dai clap e dalla voce di Koko Taylor, al limite del gospel.
Gowan spinge sull’acceleratore con “I Don’t Need No Doctor”, famosa per le versioni di Ray Charles e Humble Pie, ma qui rinnovata nel classico stile Styx, non a caso miglior brano dell’album, in cui il pomp si fa straripante, sicura live-hit.
Il boogie di “One Way Out” (classico di Elmore James reso famoso dai The Allman Brothers Band) è retto da un riff a dir poco assillante, e Tommy Shaw sembra particolarmente a suo agio con certe sonorità, come pure lo è Gowan, a cui tocca la successiva ballad “A Salty Dog”, altro classicone del 1969 targato Procol Harum.
Altro brano killer, “Summer In The City”, ammantato di un flavour anni ’50 da cui qualcuno dovrebbe trarre insegnamento (vero Michael Bublé?), forse il pezzo più pop (ma qui è dura eh), dei The Lovin’ Spoonful (1966), prima che James Young si cimenti nel riffing ossessivo di Manic Depression – non credo di dover dare informazioni su questa song – e confermandosi un buon performer blues anche dal punto di vista vocale.
Si torna a mescolare influenze art prog in “Talkin’ About The Good Times”, estratto non famosissimo dei The Pretty Things, con Lawrence Gowan alla voce infarcita di effetti flanger e contornata di synth orientaleggianti, arrangiamenti molto vicini a quelli delle prime due song in tracklist. Si prosegue con “Locomotive Breath”, Jethro Tull, 1971, non a caso è Young a occuparsi dell’oscuro feeling di questo storico brano, mentre le atmosfere più allegre di Crosby, Stills & Nash sopraggiungono con “Find The Cost Of Freedom”, brevissimo intermezzo hippie prima di una versione stratosferica di “Wishing Well” dei The Free, con un Tommy Shaw stellare.
Si chiude con “Blue Collar Man @ 2120”, nuova versione della song che portò gli Styx nella Top 40 nel 1978, e le cui royalties verranno devolute alla Willie Dixon’s Blues Heaven Foundation.
Non mi sono rimaste molte parole per assicurarvi la portata di questo lavoro, forse avrete la riprova che gli Styx sono una delle tre o quattro band clamorose nel panorama prog/aor, quando fra pochi giorni (28 giugno a Milano) li vedrete dal vivo in coppia con i Kansas, con tanto di apparizione – così si vocifera – di Chuck Panozzo, alla faccia dei maligni che additavano l’avvicendamento alla “vecchiaia” del bassista.
Credo proprio che chi sarà assente se ne pentirà per molto tempo
Tracklist:
- I Am The Walrus (The Beatles)
- I Can See For Miles (The Who)
- Can’t Find My Way Home (Blind Faith)
- It Don’t Make Sense (You Can’t Make Peace) (Willie Dixon)
- I Don’t Need No Doctor (Humble Pie)
- One Way Out (Allman Brothers)
- A Salty Dog (Procol Harum)
- Summer In The City (Lovin’ Spoonful)
- Manic Depression (Jimi Hendrix)
- Talkin’ About The Good Times (The Pretty Things)
- Locomotive Breath (Jethro Tull)
- Find The Cost Of Freedom (CSNY)
- Wishing Well (Free)
- Blue Collar Man (Styx)