Recensione: Binary Dream
I Turbulence sono una band progressive metal libanese che muove i primi passi come band tributo ai Dream Theater. Con il loro terzo studio album, Binary Dream, il combo vuole confermare quanto di buono proposto con i precedenti Disequilibrium e Frontal, e centra l’obiettivo. Diciamolo subito, Binary Dream è un disco compatto, con sole nove tracce, di cui due sotto i centoventi secondi e tre strumentali, per un totale di 48 minuti di fuoco e fiamme. A detta della band è presente anche un concept fantascientifico che vede come protagonista un robot a nome 8b+1 al centro di un esperimento chiamato Binary Dreaming. Lungo lo sviluppo del platter assistiamo al percorso di presa di autoconsapevolezza dell’androide e viene in mente inevitabilmente il filone sci-fi degli Ayreon (di cui aspettiamo il nuodo live dvd).
Ma veniamo alla musica. Dopo l’intro “Static Mind”, “Theta” è un signor pezzo, che trasmette una potenza incredibile. Il merito va ai riffoni djent di Alain Ibrahim, ma anche alla voce di Omar El Hage, pulita ma versatile. Il sound suona al passo coi tempi, vicino al dettato theateriano ma anche alla nouvelle vague progressive. La breve “Time Bridge” è spigolosa al punto giusto e introduce magnificamente la strumentale “Manifestations”, brano vicino a sonorità targate Haken e Between the buried and me. I sei minuti della composizione non raggiungono la follia dei Liquid Tension Experiment o di una “Dance of Eternity”, ma i nostri riversano tutta la loro maestria tecnica e creatività riuscendo a superare i propri padri spirituali nella loro proposta attuale (chi ha detto “Enigma machine”?). Da segnalare l’apporto del tastierista Mood Yassin, che ricorre a sintetizzatori acidi e l’assenza di assoli da shredder in stile Petrucci. Collocata in posizione centrale in scaletta, “Ternary” è una pseudo-ballad che strizza l’occhio ai Leprous e risulta pezzo a effetto con una coda interessante valorizzata da linee di basso corpose.
E siamo alla titletrack, un quarto d’ora di magniloquenza progressive. All’avvio sono rintracciabili ancora influssi della band norvegese, complici le ritmiche ipersincopate, ma il momento che stiamo aspettando è dietro l’angolo. A metà della suite troviamo infatti un momento di rara bellezza, quando la band ci ricorda le sue radici legate al Vicino Oriente e regala un momento di pura goduria, come in passato sapevano fare i Myrath. Il resto dell’album si compone di tre tracce discrete. Più della potente “Hybrid” (singolo scelto come apripista del full-length), colpisce il bersaglio la sognante “Corrosion”, con richiami ai Fates Warning, e il lungo assolo della strumentale finale “Deerosion”, degna dei migliori Threshold.
In definitiva i Turbulence riescono a bilanciare tecnica ed emozione, unendo tempi dispari e poliritmie a momenti più sognanti, il tutto con sapiente versatilità. Reggono il confronto con due band come i Sons of Apollo e i recenti Whom Gods Destroy. Ancora non sono gli Haken o i Leprous, ma potrebbero essere sulla buona strada; dovrebbero puntare di più sulle contaminazioni orientali per conferire maggiore spessore al loro sound.