Recensione: Birna
Aspettavo con una certa trepidazione l’uscita di “Birna”, sesto album dei nordici Wardruna. Il precedente lavoro di Einar&C, “Kvitravn”, mi era piaciuto parecchio (tanto che ancora oggi me lo riascolto con una certa frequenza, soprattutto in giornate uggiose come quella in cui sto scrivendo), ed ero ansioso di ascoltare musica nuova dalla compagine norrena. Dopo aver solcato i cieli con lo spirito del corvo, i Wardruna tornano sulla terra per seguire la guardiana della foresta, l’orsa che intitola l’album, nel continuo ciclo naturale di vita, morte (letargo) e rinascita. Einar parte dalla più famosa delle rappresentazioni dell’orso, animale totemico presente in molte culture dell’emisfero boreale in qualità di protettore della natura selvaggia e ne sfrutta l’antico rapporto col genere umano (dall’iniziale minaccia, all’avversario da rispettare, fino al simbolo di forza a cui aspirare nelle sfide della vita) per tornare a quello che gli interessa di più: la ricerca di un rinnovato equilibrio tra uomo e natura, ormai fin troppo calpestata, e le tradizioni che a quest’ultima si rifanno. “Birna” è, come spesso accade quando si parla di Wardruna, un percorso rituale messo in musica: dieci tracce di folk norreno dall’altissima carica evocativa, il cui continuo intreccio di voci e strumenti tradizionali ricama stati d’animo che spaziano dalla serenità all’angoscia, serpeggiando tra emozioni complementari e mantenendo una tensione costante anche nei momenti all’apparenza più rilassati. Ritmi blandi e ripetitivi tratteggiano paesaggi dormienti, letargici, richiamando di quando in quando il passato del gruppo, mentre voci e strumenti si insinuano in questo percussionismo per disegnare melodie ipnotiche, evocando lo spettro di riti antichi: come nei precedenti lavori di Einar e soci, anche in “Birna” il tasso di coinvolgimento si mantiene decisamente alto e crea una continua aspettativa che, di traccia in traccia, non viene disattesa. Rispetto al suo predecessore, forse più elegiaco e solenne – passatemi il termine elevato, in mancanza di un termine migliore – “Birna” sembra seguire le orme dell’animale da cui trae il nome tenendo i piedi ben piantati a terra. Le atmosfere sono costruite con la solita cura, ma stavolta si calano maggiormente nel mondo anziché osservarlo dall’alto, con gli elementi ambient che avvolgono l’ascoltatore per immergerlo nel cuore di una foresta o nelle profondità di una caverna. Ciò, unito ai ritmi pulsanti che punteggiano il lavoro, dona alle composizioni un fare a tratti bucolico e festoso, a tratti incalzante e ferino.
Una voce cupa alza il sipario su “Hertan”: in un attimo un battito ritmico, tribale e pulsante, e voci eteree si impossessano del pezzo, aprendo la strada al resto degli strumenti mantenendo un intenso afflato evocativo, per accompagnare l’ascoltatore nel cuore della terra ad incontrare l’orsa, cuore della foresta. La solennità del pezzo si fonde a melodie maestose e ad innesti cupi, settando subito la barra piuttosto in alto. La title track si poggia su una melodia compassata e un ritmo lento, costante, ipnotico, su cui si affastellano una voce dolente e melodie solenni che acquisiscono spessore pian piano. L’anima cupa del pezzo si stempera col ritorno della voce femminile e dell’arpa, le cui note liquide si perdono al riapparire di Einar. “Ljos til Jord” spande intorno a sé profumi sciamanici, grazie alle voci femminili che donano un contrappunto freddo e distante alla voce principale prima di essere spazzate via dall’ingresso del flauto, il cui calore quasi bucolico dona sfumature cangianti al pezzo che si fa incalzante col ritorno delle voci femminili. La componente ambient trova il suo apice nei quindici minuti e mezzo di “Dvaledraumar”: la traccia sviluppa un intensissimo afflato meditativo, sorretta da un ritmo che ricalca il battito cardiaco di un orso in letargo (nove battiti per minuto), il cui sonno è turbato da sporadiche intromissioni esterne. L’arpeggio dimesso che si appropria della parte centrale del brano funge da base per i seguenti intrecci vocali, donandogli un fare sognante che si spegne col richiamo della primavera nel finale. La successiva “Jord til Ljos”, a conti fatti, completa la traccia precedente riprendendone il tema ma sviluppandola su melodie più calde, punteggiate dal cinguettio del flauto che sfuma in quello degli uccelli e celebrando così il risveglio dell’orsa. Le voci eteree del coro Artemis introducono la più canonica, diciamo così, “Himinndotter”: gli intrecci tra voci femminili e quella maschile si appoggiano stavolta ad un ritmo lievemente più sostenuto, confezionando un brano che, nonostante qualche scheggia più sciamanica, abbandona le derive ambient di quelle che l’hanno preceduta per giocare con una maggiore pienezza. L’arpeggio delicato di “Hibjørnen” dissipa questa pienezza per destreggiarsi con un piglio più raccolto, toccante, da antica ballata skaldica, mentre con “Skuggehesten” i nostri alzano le pulsazioni sfruttando ritmi incalzanti e toni bassi, cavernosi, trasmettendo inquieta solennità e frenesia estatica e sfruttando gli sporadici alleggerimenti dati dagli archi per prendere la rincorsa in vista di una nuova fiammata rituale. “Tretale” torna a un taglio più compassato, guidandoci sulla neve tra rametti secchi, melodie serpeggianti e cupi sussurri per creare un brano dall’incedere concentrico, ipnotico e snervante punteggiato da improvvisi squarci di luce. Il compito di chiudere “Birna” è affidato alla lenta scalata di “Lyfjaberg”, pubblicata durante la pandemia del 2020. Otto minuti e mezzo di progressione musicale sorretta da una ritmica sfibrante, ciclica, che guadagna corpo e spirito col minutaggio a formare un unico, interminabile climax a rappresentare gli sforzi della scalata, su cui i nostri ricamano come sempre le melodie giuste per tenere alta la tensione.
“Birna” è un signor album, oltre ad essere l’ideale seguito di “Kvitravn” di cui, in fin dei conti, è il perfetto complementare. La proposta di Einar e soci è ormai da tempo codificata, ma è sempre bello constatare che il nostro si diverte ad ammantare ogni lavoro di un piglio caratteristico che dona alle tracce che lo compongono una prospettiva sempre nuova e avvincente. Se vi piace il folk norreno, o più in generale la musica densa e riflessiva, “Birna” è un album da avere.