Recensione: Black Bride
A due anni dal debut-album “Fascinating Violence” è di nuovo il momento dei giapponesi Gyze. Un momento scandito dall’uscita del loro secondo lavoro di lunga durata in studio, “Black Bride”, missato e masterizzato dal nostro Ettore Rigotti presso gli studi The Metal House (Disarmonia Mundi, Destrage, Blood Stain Child, Babymetal, …), giunto al culmine di un’intensa attività live in Giappone, Corea del Sud e Taiwan. La formazione è sempre capitanata dal talentuoso chitarrista Ryoji, pure cantante e tastierista, affiancato – oltre al fido batterista Shuji – dal nuovo bassista/cantante Aruta in luogo del membro fondatore Shogo.
Le coordinate stilistiche del terzetto abbracciano come di consueto il death metal melodico, anche se stavolta la definizione utilizzata dalla band medesima è ‘epic melodic death metal’, con quell’‘epic’ che, forse, avrebbe potuto essere meglio sostituito da ‘symphonic’. Sì, poiché l’enorme lavoro armonico – sia alla chitarra, sia alle tastiere – che Ryoji si sobbarca lungo tutta la durata del platter, consente al death metal dei Gyze di assumere una vera e propria veste sinfonica. Che, in virtù delle abbondantissime sovrastrutture estetiche, può rimandarsi allo stile artistico barocco o, ancora meglio, rococò.
Una sovrabbondanza di note a volte fin esagerata, tale da stordire l’ascoltatore e distoglierlo, almeno dai primi ascolti, dal songwriting dell’ensemble asiatico. Che, appunto, mostra segni di maturità evidente e concretezza assassina. Qualità dimostrate nella hit “Honesty”, dapprima quasi stucchevole nella sua abnorme sfarzosità melodica per poi esplodere con semplicità e naturale in un ritornello micidiale, di quelli cioè che s’inchiodano nella scatola cranica per rimanervi attaccati a lungo. Oppure in “Black Shadow”, meno ruffiana rispetto alla song appena citata ma assai più profonda e struggente come mood nonché nobilitata da un fenomenale guitar-solo di Ryoji; capace di dimostrare che, anche nel 2015, quando nel campo dei ‘guitar hero’ pare esser già stato detto e scritto tutto, la fantasia e il talento di un artista possono fare ancora la differenza.
Ma è nella compattezza fra i singoli componenti, nel gioco di squadra, cioè, che i Gyze rivelano un inaspettato quanto innato feeling. A fianco di Ryoji, sulle spalle del quale grava molta della responsabilità finale del ‘prodotto Gyze’, Aruta e Shuji svolgono un compito tutt’altro che da comprimari. Il primo, sostenendo con gran lena e dinamicità il sound – teoricamente debole – di un act a una chitarra sola, aiutando il leader pure nelle linee vocali. Il secondo, dimenandosi in un drumming poderoso, possente, vario e, quando occorre, devastante. Come dimostrano i fulminanti blast-beats della spaventosa “Satanic Loop”, canzone ‘sfascia tutto’ super-melodica che dal vivo mieterà molte, molte vittime.
Per chi osserva il metallo giapponese con sospetto e, magari, pregiudizio, i Gyze sono l’occasione ideale per tentare un cambio di rotta a 180°. “Black Bride” è un lavoro di altissima qualità tecnico/artistica e loro la meritano tutta, questa chance.
Daniele “dani66” D’Adamo