Recensione: Black Clouds & Silver Linings

Di Riccardo Angelini - 2 Luglio 2009 - 0:00
Black Clouds & Silver Linings
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2009
Nazione:
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83

“Immaginatevi di avere all’interno di un solo album canzoni come: ‘A Change Of Seasons’, ‘Octavarium’, ‘Learning To Live’, ‘Pull Me Under’ e ‘The Glass Prison’. Sono molto eccitato… e chi non lo sarebbe?” (Mike Portnoy, novembre 2008)

 

Già, chi non lo sarebbe? Il fatto è che quando Portnoy ha in lavorazione un nuovo album andrebbe messo sotto sedativi, sia per contenere i suoi eccessi di entusiasmo, sia per impedirgli di proferire eresie circa i nuovi pezzi. Fra i classici citati da Portnoy e i sei brani di ‘Black Clouds & Silver Linings’ si apre un fossato bello largo e profondo. Piuttosto, il nuovo album appare il riflesso fedele di ciò che i Dream Theater rappresentano oggi nel mondo della musica. Ma prima di entrare nel dettaglio sarà forse meglio fare il punto della situazione.

 

2008: l’esordio su Roadranner non ha segnato un nuovo inizio per la band. Al contrario, ‘Systematic Chaos’ segna la prima battuta d’arresto nella sua evoluzione – magari discutibile, ma fino ad allora continua. Se l’album non è un capolavoro, le uscite successive sono veri e propri passi falsi. Inutile l’EP ‘Forsaken’, inspiegabile il “best of” (best?) successivo. Mettiamoci pure l’ennesimo DVD dal vivo (il terzo in quattro anni) che non aggiunge granché a una discografia già satura di documenti live. Colpo di grazia: in una band con più di qualche problemino di immagine (che diavolo si mangia Petrucci a colazione!?), l’allargamento del girovita di Labrie si traduce in un drastico abbassamento del range vocale disponibile. La circostanza, già in sé incresciosa, comporta l’ulteriore rischio di stuzzicare la voglia di emergere dell’ugola di stagno Portnoy. No good, come dicono gli americani.

 

Dopo tutto questo arriva ‘Black Clouds & Silver Linings’. Presentato da un artwork che interrompe una lunga, impietosa combo di pugni nell’occhio (da ‘Six Degrees…’ in poi è stato un dramma) riportando alla memoria i fasti di ‘Awake’, l’album si accolla il non facile compito di dimostrare che i nostri sono ancora vivi e vitali. Se il difetto principe di ‘Systematic Chaos’ era stata l’assenza di sorprese, la nuova giostra inizia con un colpo di scena. ‘A Nightmare To Remember’ spiazza tutti con una improvvisa, drammatica apetura orchestrale (non sarà la sola), con tanto di forsennato drumming in doppia cassa: se a qualcuno sono venuti in mente gruppi come i Dimmu Borgir, sappia che non è il solo. Le affinità con i norvegesi comunque finiscono qui. Minuto 1:41 – la musica cambia. A prendere il comando è Petrucci, con un riffing grassottello che accompagna la prima strofa cantata. Nel quarto d’ora a venire i cambi di registro non saranno pochi: incursioni soliste al limite del southern rock, estemporanei stacchi kingcrimsoniani, improvvise folate in doppia cassa, costanti richiami a melodie made in 70′. Il tutto, bisogna ammetterlo, scorre molto bene. Mentre i minuti sfumano leggeri, si palesa un primo elemento distintivo dei Dream Theater versione 09. Le imprendibili progressioni strumentali di un tempo sono qui rimpiazzate da un modus componenti sì vario, ma più ordinato e lineare, con una serie di sezioni nettamente distinte giustapposte l’una di seguito all’altra. Ne trae giovamento l’immediatezza, si perde più di qualcosa in fantasia. L’applicazione più eloquente di questo metodo emerge in ‘The Count Of Tuscany’ – peraltro per chi scrive il miglior pezzo del lotto – caratterizzato da minutaggio elevato e costruzione relativamente semplice. A grandi linee: intro-strofa-ritornello-strofa-ritornello-solo-outro. Più che una vera e propria suite come ‘A Change Of Season’ e ‘Octavarium’, sembra di ascoltare una canzone molto, molto lunga. I quattro minuti introduttivi sono proabilmente i più densi, con una fitta trama di cambi di tempo e intrecci chitarra/tastiera di gran classe. Poi parte il brano vero e proprio, e qui la differenza la fanno esperienza e personalità. Non una nota fuori posto: i break strumentali che legano le diverse sezioni tengono l’orecchio incollato alle casse, un refrain ficcante come pochi riesce a valorizzare persino le backing vocals di Portnoy, gli ultimi cinque minuti sono un capolavoro di emozione e sentimento. Qui un solo psichedelico di Rudess suggerisce la melodia all’acustica di Petrucci: come Labrie comincia a cantare “could this be the end?” parte pian piano un crescendo da antologia, che con un pugno di note fa correre più di un brivido lungo la schiena. Di nuovo la formula vincente è semplicità e concretezza: e chi non si commuove è un cuore di pietra.

 

“The chapel and the saint

The soldiers and the wine

The fables and the tales

All handed down through time”

 

Fin qui è già possibile individuare alcune costanti. La componente tecnica appare molto snellita rispetto agli standard del passato: le canzoni puntano su introduzioni evocative, arrangiamenti spesso inclini alla sinfonia e, soprattutto, refrain subito memorizzabili. Addirittura, nel singolo ‘A Rite Of Passage’ il chorus diventa il punto di luce di tutto il brano – un brano senz’altro orecchiabile, retto da un riffing metallico e da arabeschi in stile ‘Home’, ma non esente da difetti. I punti d’ombra sono due in particolare: la strofa introduttiva cantata (per modo di dire) da un Labrie più antipatico che cattivo, e la seconda parte del solo di Rudess, a dir poco fuori tema. Nessuno si stupisca se questa sezione è stata espunta dalla radio-edit. Piuttosto, sorprende che non sia ancora stato tratto un singolo da ‘Wither’, melanconica ballata pop-rock che non stonerebbe in una classifica di MTV. Sia pure commerciale e ruffiano nell’anima, nondimeno un brano così appare quasi inattaccabile sotto il profilo compositivo: arrangiamenti sontuosi, melodie romantiche e, ciliegina sulla torta, un assolo che conferma l’ottimo momento di forma (artistica di sicuro, fisica ne parliamo) di Petrucci.

Petrucci: quest’uomo potrebbe tenere in piedi da solo la maggior parte delle canzoni di ‘Black Clouds…’ – e qui si parla di gusto, non di tecnica. Ascoltate la lunga e incantevole coda solista di ‘The Best Of Times’. Il brano nasce come duplice tributo: ai Rush – esplicita la citazione dell’attacco di ‘The Spirit Of Radio’ – e alla memoria del padre di Mike, Howard Portnoy. Se le assonanze rushiane della prima parte potranno suscitare il malcontento di qualche purista, è anche vero che la canzone è un ottimo esempio di bello stile. Il lento proemio fa già storia a sé, con Rudess (pianoforte), Goodman (violino) e Petrucci (acustica) a passarsi il testimone di una melodia fioca e struggente. Perfetto l’equilibrio fra la prima metà, aperta e solare, e la seconda, più malinconica. E stavolta non c’è neppure bisogno di calcare troppo la mano sull’ennesimo refrain azzeccato.

Discorso del tutto a parte va riservato a ‘The Shattered Fortress’, ultimo atto della ‘Twelve Steps Suite’ iniziata del 2002 da ‘The Glass Prison’ e proseguita di album in album con ‘This Dying Soul’, ‘The Root Of All Evil’ e ‘Repentance’. Si tratta ora di chiudere le danze, e com’era prevedibile il brano abbonda di citazioni e riferimenti dalle tracce precedenti, tirando le fila di quella che si potrebbe considerare una lunghissima suite a sé stante da 57′ e 16” (a quando un’esecuzione completa dal vivo?). Inevitabili i richiami alle sonorità oscure e pesanti della prima parte di ‘Six Degrees…’, con un Myung particolarmente ispirato al basso, riffoni strafottenti e linee vocali sovente filtrate.

 

Prima di tirare le somme, vale la pena soffermarsi sui due dischi extra inclusi nell’edizione speciale. Cominciamo dalla fine. Il terzo CD contiene il mix strumentale dell’intero album: l’idea suona decisamente meno peregrina una volta completato l’ascolto. I brani in effetti non sono semplicemente ripuliti dalla pista audio (in quel caso sì che sarebbe stata un’operazione becera), ma subiscono rimaneggiamenti sostanziali. E, in qualche caso, ne traggono non poco giovamento: così ‘A Rite Of Passage’, libera da linee vocali gracchianti e dall’assurdo solo di Rudess. Labrie ha qualcosa su cui riflettere.

Il secondo CD, ‘Uncovered 2008/09′, raccoglie i singoli pubblicati a cadenza regolare nelle settimane precedenti la release di ‘Black Clouds…’. Alla luce dei catastrofici bootleg ‘Number Of The Beast’ e ‘Master Of Puppets’, i fan di Rainbow, Queen, Dixie Dregs, Zebra, King Crimson e Iron Maiden avevano tutte le ragioni di correre ai ripari. Eppure, complice la magia dello studio, il risultato sorprende in positivo: i pezzi brani sono reinterpretati con personalità, senza snaturarne lo spirito. La cover più fedele è forse quella di ‘Larks’ Tongues In Aspic Part.2′: ancor’oggi ostica ai più, dà a intendere quanto diavolo fosse avanti Fripp nel 1973. L’altra strumentale, ‘Odyssey’, si distingue per fluidità d’esecuzione: chi non avesse familiarità con i Dregs potrebbe tranquillamente scambiarla per un originale Dream Theater. Diverso il discorso per ‘To Tame A Land’, rimaneggiata in modo più radicale. Le tastiere di Rudess accentuano il sound orientaleggiante, ma spogliano il pezzo della sua essenziale oscurità. Anche Labrie fa del suo meglio, ma l’interpretazione di Dickinson era un’altra cosa. Molto meglio ‘Take Your Fingers From My Hair’: gli Zebra oggi non sono fra i più chiacchierati, ma la loro influenza su gruppi come Ayreon e Dream Theater stessi è testimoniata da un’overdose di riff frizzanti e saliscendi melodici di grande impatto. La vera sorpresa viene da ‘Stargazer’ e ‘Tenement Funster / Flick of the Wrist / Lily of the Valley’ (di fatto un unicum anche su ‘Sheer Heart Attack’). Confrontarsi con due mostri sacri del genere non è facile per nessuno. Soprattutto Labrie deve fare gli straordinari, al cospetto di due fra le più grandi voci della storia della Musica. Decide di giocarsela sul piano del feeling, e contro ogni pronostico tiene botta: il classico dei Rainbow in particolare mantiene intatto il pathos epico e l’attitudine rock, anche in virtù di un arrangiamento sobrio ed elegante. A conti fatti, questa collezione di singoli rappresenta qualcosa in più di una banale chicca. C’è chi dischi ben più maldestri li butta fuori a prezzo pieno, nel caso dei Dream Theater vi potrete portare a casa la limited edition alla più che onesta cifra di euro 23 e 90.

 

E ora sì che possiamo tirare le somme. Come si è già osservato, ‘Black Clouds’ definisce una band diversa, artisticamente realizzata, consapevole di avere ormai alle spalle i propri capolavori, che ambisce a consolidare la propria posizione commerciale senza stravolgere, per opportunità o per vocazione, i propri tratti distintivi. Sono ancora i Dream Theater il punto di riferimento principale della scena progressive metal? Niente affatto. Altri si contendano quel ruolo: i Dream Theater di oggi appaiono più che mai una realtà trasversale, la cui musica tocca non solo il progressive ma anche il rock classico, il metal moderno, il pop. Sanno suonare tutto e lo dimostrano, anche se sembrano aver imparato a contenersi, rinunciando a scimmiottare in modo troppo sconveniente i vari Metallica, U2, Muse, Pink Floyd. D’altronde, l’aggressività tecnica di un tempo è ormai venuta meno (anche se chi li accusava di essere troppo perfetti in passato ora ama farsi trovare in prima fila ad additarne le sbavature), così come è venuta meno la necessità di dimostrare a tutti i costi il proprio valore. Piuttosto, qualche preoccupazione può venire dalla parte di James Labrie, protagonista di un vistoso calo nelle ultime uscite on stage. In studio il problema può essere ovviato con linee vocali ad hoc e qualche aggiustamento alla console. Dal vivo, soprattutto con i vecchi successi, sarà decisamente più dura.

 

Eppure, nonostante tutto, i Dream Theater riescono ancora a piazzare un album fra le uscite che non si potranno ignorare in questo 2009. Difficile ormai aspettarsi da loro qualcosa meglio di ‘Black Clouds & Silver Linings’, già un passo avanti rispetto al predecessore. E inutile aspettarsi di trovare qui il futuro del progressive metal: sarà ben più sensato abbandonarsi alla bellezza delle melodie, degli arrangiamenti, delle canzoni. Pezzi come ‘A Nightmare To Remember’, ‘The Best Of Times’ e ‘The Count Of Tuscany’ – i più lunghi del disco: sarà un caso? – hanno i numeri per entrare nell’elite dei classici della band, ‘Wither’ è un futuro singolo dal successo annunciato, ‘A Rite Of Passage’ pare già un ospite fisso nelle scalette dei concerti, ‘The Shattered Fortress’ porta degnamente a compimento una saga ormai storica. Può bastare?

 

“Thank you for the inspiration
Thank you for the smiles
All the unconditional love
That carried me for miles
It carried me for miles”

 

Riccardo Angelini

 

Tracklist:

 

Disc One:

1. A Nightmare To Remember (16:10)

2. A Rite Of Passage (8:35)

3. Wither (5:25)

4. The Shattered Fortress (12:49)

5. The Best Of Times (13:07)

6. The Count Of Tuscany (19:16)

 

Disc Two (Bonus Disc) – Uncovered 2007/08:

1. Stargazer (Rainbow cover, 8:10)

2. Tenement Funster  / Flick Of The Wrist / Lily Of The Valley (Queen cover, 8:17)

3. Odyssey (Dixie Dregs cover, 7:59)

4. Take Your Fingers From My Hair (Zebra cover, 8:18)

5. Larks’ Tongues In Aspic Pt.2 (King Crimson cover, 6:30)

6. To Tame A Land (Iron Maiden cover, 7:15)

 

Disc Three (Bonus Disc):

1. A Nightmare To Remember (instrumental mix)

2. A Rite Of Passage (instrumental mix)

3. Wither (instrumental mix)

4. The Shattered Fortress (instrumental mix)

5. The Best Of Times (instrumental mix)

6. The Count Of Tuscany (instrumental mix)

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