Recensione: Black Country Communion
Contro ogni pronostico, gli anni 2000 si sono rivelati un’epoca d’oro per i cosiddetti “supergruppi”, cioè per quei progetti paralleli costruiti, a prima vista, magari un po’ “a tavolino” mescolando vari componenti provenienti da realtà già affermate, per produrre studio album con cadenze variamente dilatate nel tempo in funzione degli impegni delle main band.
Si tratta di un fenomeno per la verità piuttosto esteso, mai scomparso in ambito heavy metal (basti pensare a band ormai datate e tuttora in pista come Transatlantic, A Perfect Circle e Down) ma comunque presente anche nei contesti dell’alternative più mainstream (Audioslave e, in certa misura, Velvet Revolver) fino al pop rock (l’ultimo esempio è quello dei The Good, the Bad & the Queen, capitanati da Damon Albarn dei Blur e dall’ex Clash Paul Simonon).
Tornando a lidi più hard oriented, per gli appassionati dell’arena rock anni ’80 e dello stoner/alternative anni ‘90 il 2009 ha visto il debutto di Chickenfoot e Them Crooked Vultures mentre per il progetto hard blues seventies inspired denominato Black Country Communion, parafrasando un vecchio film di Peter Hyams, il 2010 è stato ”l’anno del contatto”.
Sotto a un monicker così oscuro e imponente si celano quattro personalità di spicco del panorama musicale internazionale: nientemeno che l’ex Purple Glenn Hughes (voce e basso), Joe Bonamassa, con Jonny Lang uno dei maggiori chitarristi blues delle ultime generazioni, il figlio d’arte Jason Bonham dietro le pelli e l’ ”intruso” Derek Sherinian (ex Malmsteen e Dream Theater) alle tastiere.
Ad un primo ascolto “Black Country” potrebbe essere frettolosamente etichettato come un lavoro di revival hard blues, tuttavia una categorizzazione di questo tipo non permette di enumerare le molteplici sfaccettature sonore di questa bizzarra “Comunione”.
La musica proposta è figlia tanto degli anni ’70 quanto degli anni duemila: da un lato il basso funky e la voce dalle venature soul/gospel dell’inossidabile Glenn Hughes, e dall’altro, a contrapporsi in una felice armonia, il sound orchestrato dal resto della band, meno nostalgico di quanto fosse lecito attendersi.
Jason Bonham fornisce una prestazione energica e convincente, Derek Sherinian centellina con saggezza le rifiniture di tastiera, prediligendo il suono magico dell’hammond tipicamente anni ’70, tuttavia la vera sopresa è costituita da Joe Bonamassa. Il suo blues sconfina spesso e volentieri nell’hard rock, le chitarre presentano un sound tosto e corposo e il suo stile, pur ovviamente influenzato dai classici del rock blues come Eric Clapton o Jeff Beck, non disdegna qualche incursione in territori più recenti. Si potrebbe dire, magari azzardando un po’, che oggi Joe rappresenti per il blues ciò che Gary Moore ha rappresentato nei primi anni ’90: l’introduzione di tecniche strumentali e sonorità che fino ad allora erano appannaggio esclusivo di generi più “estremi” su di un’intelaiatura propriamente blues.
Le singole canzoni risplendono di luce propria mettendo ognuna in evidenza di volta in volta differenti peculiarità espressive, in rapporto alla prevalenza dell’uno o dell’altro elemento. In effetti “Black Country” non è un lavoro “a compartimenti stagni”, come magari gli ingombranti curriculum delle superstar in campo avrebbero potuto lasciar immaginare, è anzi un album molto organico, nel quale gli strumenti e addirittura le voci collaborano e s’integrano a vicenda come forse non accadeva dai tempi della Mark III dei Deep Purple e come nell’era moderna si è visto fare solamente nelle opere targate Allen/Lande.
La (quasi) title track è una scheggia di hard rock funkeggiante in cui voce e basso di uno sciamanico Glenn Hughes salgono subito in cattedra, prontamente assecondati dal resto degli strumenti. Il solo è breve e giocato su scale veloci e su giochi chitarra/voce come se ne sentivano ai concerti di Led Zeppelin, Rainbow e Deep Purple. Come brano d’apertura, pur valido, risulta piuttosto fuorviante rispetto al resto della scaletta, composto da componimenti mediamente più lunghi e articolati nei quali si realizza un maggiore amalgama tra le varie influenze.
“One Last Soul” e “The Great Divide” colpiscono per la bellezza delle melodie e per la prova maiuscola dell’intera band, con particolare menzione per Joe Bonamassa e i suoi preziosi ricami all’elettrica.
Il riff sabbathiano di “Down Again” parrebbe un buon preludio per un altro pezzo di alto livello, tuttavia un refrain zoppicante penalizza il risultato complessivo, mentre l’ottima “Beggarman”, dall’ incipit di marca hendrixiana, ripercorre, nello sviluppo, il sentiero tracciato dalle due tracks precedenti, quelle più vicine allo stile dei lavori solisti di Hughes.
“Black Country” entra nel vivo con la splendida “Song Of Yesterday”, uno degli episodi meglio riusciti, in cui Joe la fa da padrone sia alla chitarra che al canto, mutando a piacimento l’atmosfera della canzone, dall’inizio tranquillo e sognante, passando per uno sviluppo centrale a base di voce ed elettrica distorta, fino ad un torrenziale assolo che richiama alla mente il Norum di “The Devil Sings The Blues”. Il connubio tra le due voci, alta e cristallina e a volte tirata all’estremo quella di Glenn, bassa e rotonda, a tratti vagamente VanMorrisoniana quella di Joe, offre ottimi risultati, e anche quando uno dei due si limita ai semplici controcanti, l’effetto raggiunto è paragonabile a quello di binomi storici come Bon Jovi/Sambora o, non a caso, Coverdale/Hughes.
Ancora influenze funk e basso pulsante in “No Time”, pezzo dall’andamento urgente, così come suggerito dal titolo mentre “Medusa” è una riedizione del capolavoro targato Trapeze dei primi anni ’70, anche allora con Hughes al microfono. A distanza di quarant’anni Glenn se la cava ancora egregiamente e la cover trae giovamento dall’apporto di un sound di chitarra più roccioso ed attuale che conferisce ulteriore maestosità ad un riff imponente di tipica discendenza settantiana.
“The Revolution In Me” si distingue per le lead vocals (per la prima e unica volta gestite in solitaria da parte di Joe) e per un fenomenale assolo di chitarra, lungo e dinamico, una vera e propria progressione in termini d’intensità, atmosfera e velocità, il tutto innestato su di un’ossatura di derivazione Deep Purple. “Stand (At The Burning Tree)” coniuga mirabilmente aggressività (nel riffing, nel percussionisimo di Bonham e nelle strofe cantate da Hughes) e psichedelia (fenomenale il pre-coro), e finalmente anche Derek Sherinian si ritaglia il giusto spazio con il suo Hammond.
Ci si avvia verso la conclusione con “Sista Jane”, uno dei pezzi più puramente hard rock del lotto, in cui riffing e cantato strizzano l’occhio agli Ac/Dc prima maniera e, infine, con la memorabile “Too Late For The Sun” la quale, dopo una partenza in linea con il resto dei brani finora proposti, assume pian piano le sembianze di una vera e propria jam session in cui paiono confluire in un corpo unico Deep Purple, Black Sabbath, Free e Doors.
Come anticipato in precedenza “Black Country” rappresenta dunque, così come rivendicato in sede d’intervista dal gruppo, un sentito omaggio, da parte di quattro musicisti dal background inequivocabile, ai suoni e alle atmosfere degli albori della musica (hard) rock. Pur con i dovuti distinguo, già ampiamente esposti, si tratta, in buona sostanza, di un album che fondamentalmente non inventa nulla, tuttavia la classe dei singoli e la notevole ispirazione in sede di songwriting ed esecuzione lo rendono meritevole di essere preso in considerazione sia dagli appassionati che da eventuali ascoltatori alla ricerca di buona musica .
Allo stato attuale non si hanno notizie di un eventuale secondo capitolo in un futuro prossimo, ad ogni modo la speranza è che un “Black Country Vol. II”, magari ancora più hard oriented, possa vedere la luce in tempi brevi, magari dopo un tour che tributi ai BCC il giusto omaggio.
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Tracklist:
01 Black Country
02 One last Soul
03 The Great Divide
04 Down Again
05 Beggarman
06 Song Of Yesterday
07 No Time
08 Medusa
09 The Revolution In Me
10 Stand (At The Burning Tree)
11 Sista Jane
12 Too Late For The Sun
Line Up:
Glenn Hughes – Voce / Basso
Joe Bonamassa – Chitarra / Voce
Derek Sherinian – Tastiere
Jason Bonham – Batteria