Recensione: Black Cowslip
Quarto full-length per i Rabid Dogs, “Black Cowslip”. A quattro anni di distanza da “Italian Mysteries”, la formazione italiana si rifà viva con un ulteriore step evolutivo del proprio stile.
A oggi esso è ancora rubricato come grindcore ma, a voler mettere le cose al loro posto, occorre sottolineare che si tratta di una classificazione vetusta e fuorviante. Piano piano, infatti, dagli ardori giovanili (“Rabid Dogs”, 2011), si è passato a qualcosa che sa sempre di estremo ma che, in sostanza, rivela un sound del tutto nuovo e personale.
L’intromissione di culture eterogenee quali ruvido rock’n’roll, polveroso stoner e riottoso d-beat ha trasformato i Nostri in una band poliedrica, in grado di proporre soluzioni caleidoscopiche, mai fisse su un genere in particolare. Con grande beneficio del songwriting che, in tal modo, ha limiti più ampi entro cui elaborare le varie canzoni, come dimostrano, per esempio, i roventi inserti bluesggianti eseguiti con l’armonica a bocca.
L’atteggiamento testuale fondato su un saporito cattivo gusto, non esente da eccessi più o meno accentuati, è l’ideale intelaiatura lirica sulla quale aggiungere la sovrastruttura musicale. La quale, in certi momenti, porta con sé echi di Motörhead (‘Sgt. Kempfer’). Di quelli cocenti di “Ace of Spades” (1980), per intendersi. Si tratta di flebili assonanze e non di più poiché, come già accennato, i Rabid Dogs non fanno il verso a nessuno, tirano dritti per la loro strada e si adagiano su una foggia musicale del tutto personale. Un marchio di fabbrica tratteggiato con decisione, dal disegno unico nel panorama del metallo oltranzista. Il che, pare quasi inutile evidenziarlo, è una gran cosa.
La ricerca della propria identità artistica, difatti, è un’operazione che riesce con relativa rarità. Soprattutto nel campo nelle sette note ove, data la marea infinita di act rende assai facile cadere nella ridondanza, nella scopiazzatura, insomma, anche se a livello inconscio. Il trio abruzzese, al contrario, si può dire che abbia raggiunto la laurea, in questa particolare disciplina: l’originalità musicale.
Originalità musicale che dà il la alla composizione di brani più che sufficientemente diversi fra loro, seppur obbedenti a dettami ideati con bravura e talento. L’opener-track, ‘The Crown and the Fist’, funge da cartina al tornasole per manifestare sin da subito cosa sia il combo di Atessa. Ugole scabre quasi a sanguinare, lavorate con la carta di vetro a lana grossa. Chitarra dal riffing potente, rabbioso, dinamico; dai soli distorti e laceranti. A volte dal suono stoppato dalla tecnica del palm-muting, a volte a coda libera. Il drumming è sciolto, preciso, dall’incedere in continua mutazione arrivando, nel caso in esame, ad abbracciare i blast-beats. Il basso riempie gli spazi d’aria, saturandoli per un suono complessivo trascinante, possente, massiccio.
L’assorbimento più o meno totale dei brani dipende fondamentalmente dai gusti personali, data la ridetta differenza fra gli uni e gli altri. In ogni caso, la costruzione dei medesimi avviene con meticolosità, dando l’idea che essi siano frutto di un riuscito matrimonio fra studio a tavolino e improvvisazione. Il che, almeno a parere di chi scrive, è valore aggiunto non da poco. Non a caso, dopo nemmeno pochi ascolti, ciascuna traccia si fa strada nella memoria per restarvi a lungo. E questo senza che ci sia nulla di tradizionalmente accattivante e/o orecchiabile.
Non si può concludere la disanima di “Black Cowslip” se non con un giudizio positivo. I Rabid Dogs dimostrano che non è necessario infilare in un disco un numero monumentale di accordi, affinché esso possa risplendere sulla libreria di un appassionato.
Anzi.
Daniele “dani66” D’Adamo