Recensione: Black Forest
È di circa un mese fa la notizia che a breve i Flower kings torneranno a farsi sentire con un nuovo album di inediti. Nessuno ci sperava più, dato che i membri del gruppo erano tutti dispersi in vari progettini e carriere soliste. Progettini che stanno lentamente diventando qualcosa di più che semplici sfizi.
I Karmakanic di Jonas Rehingold hanno raggiunto con In a perfect world il traguardo della quarta release e si sono imposti come una delle più avvicenti realtà prog degli ultimi anni. Stesso discorso per Roine Stolt che, oltre ai The Tangent, oltre alla riunificazione dei Transatlantic, ha portato i suoi Agents of mercy al traguardo del terzo full-length.
The black forest esce a breve distanza dall’ottimo Dramarama, tuttavia se ne discosta sensibilmente, così come ha ben poco in comune con la band madre. Non si tratta al solito di un disco de facto semplice e facile da assimilare. Rimane però un lavoro che cresce ascolto dopo ascolto, rivelando la solita maestria del songwriting, snocciolando otto canzoni di ottima qualità.
Le influenze non sono affatto difficili da individuare, ovvero soprattutto il prog degli anni 70 (gli Yes di Close to the edge e Relayer su tutti) e i Flower Kings (Stolt è pur sempre Stolt), ma in sede Agents of mercy si nota una sobrietà stilistica insolita per lo svedese. Ne escono fuori 8 episodi dal minutaggio relativamente contenuto (title track esclusa, tutti i pezzi sono attorno ai 6-7 minuti) e veramente godibili, quasi che il freak of life Stolt, avesse preso ad esempio il cammino intrapreso dai Karmakanic.
In ogni caso, la strada più dura è all’inizio, con The black forest ed a Quite little town. La prima un brano d’ampio respiro e con lunghe pause strumentali, la seconda con tastiere schizofreniche a andamenti sincopati che esaltano al meglio le doti vocali del Duke of madness Nad Sylvan. Proprio Sylvan risulta, infatti, con le sue tonalità molto particolari, uno dei punti forza del gruppo. La sua voce è infatti talmente caratterizzante da poter rendere riconoscibile anche il gruppo più anonimo (e non è questo il caso), al pari, con tutto il dovuto rispetto, di Geddy Lee dei Rush.
Dopo i due brani iniziali segue un lotto di canzoni vere e proprie molto orecchiabili, anche se difficili da assimilare, salvo due casi. Il primo è la terza traccia, Black Sunday, guidata da ottimi cori soul, l’altra è la beatlesiana Between Sun & Moon, che nonostante una variazione centrale tutt’altro che nitida, vince grazie ad un ritornello che conquista dal primo ascolto e ritmiche molto accondiscendenti, arpeggi simili a quelli più stiracchiati di Paradox Hotel. Oltre a questo resta la struggente melanconia di Elegy, quasi una Grains of hope part II. Oppure i ritmi serrati di Citadel e Freak of life, la prima ancora sincopata e mutevole, la seconda un pezzo di rock (quasi zeppeliniano) epico e trascinante.
Insomma, un’altra ottima uscita, che però non bissa Dramarama, né tantomeno raggiunge le vette degli ultimi Karmakanik.
Il perché? Questo disco sembra a tratti ingessato, molto meno spontaneo del suo predecessore. Manca una certa immediatezza, manca la verve che pervadeva ogni solco del suo predecessore, ma stiamo parlando comunque di piccoli dettagli e di sensazioni personali. Nonché di uno dei difetti congeniti del prog.
Chi ama Stolt e il progressive non avrà ignorato The black forest, al contrario, con la dovuta dose di pazienza, ne avrà tratto ampie ricompense. Nella speranza che, con un ritorno dei Flower kings, gli Agents of mercy non debbano sparire, né tanto meno che vengano messi in naftalina per un decennio.
Tiziano “Vlkodlak” Marasco
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Line Up:
Nad Sylvan: Vocals & Keyboards
Roine Stolt: Guitars & Vocal
Lalle Larsson: Keyboards & Vocal
Jonas Reingold: Bass
Walle Wahlgren: Drums & Percussion
Tracklist:
1. The Black Forest (11:10)
2. A Quiet Little Town (6:58)
3. Black Sunday (6:20)
4. Elegy (6:14)
5. Citadel (7:02)
6. Between Sun & Moon (5:07)
7. Freak of Life (8:15)
8. Kingdom of Heaven (6:20)
Total time 57:26