Recensione: Black Future
Potere. Corruzione. Odio. Violenza. Ignoranza. Fondamenta di un futuro atroce disegnato dai termini della fantascienza orwelliana mescolati al delirio ucronico di Philip K. Dick, intrappolate nell’oscurità che scaraventa un disperato drappo di pece dalle esalazioni sulfuree ricoprendo lentamente i ricordi cocenti di un mondo in frantumi. Un “Black Future” disegnato con espressionismo industriale ed eroico, che pesa come un macigno nel cuore lacerato dai detriti di note incandescenti scagliate con vigore dai Vektor attraverso una consistente esibizione a base di un arroventato Progressive/Technical Thrash metal avvolto a tratti in una lacerante interpretazione Speed.
I Vektor si presentano come una recente realtà “Futuristic-Thrash” assemblata dalle menti di David DiSanto, frontman e chitarrista, e del cosiddetto “lead shredding” Erik Nelson nelle terre di Phoenix Area, più precisamente Tempe, Arizona. La concezione della loro tecnica fa subito sgranare gli occhi sempre vispi dell’ambiente underground, facendo parlare di sé su labbra abbandonate allo stupore prima attraverso l’autoproduzione “Demolition” (2006) e inferocendo la loro intenzione ad emergere dopo aver sistemato il Demo “Hunger for Violence” (2007). In questi pochi anni vanno a collezionare collaborazioni notevoli esibendosi come openers di band quali Testament, Hirax, Iced Earth e Municipal Waste, mentre prende forma il loro full-length di debutto “Black Future” per etichetta Heavy Artillery Records.
Sconvolgente creatura in cui convivono due anime che si alternano paradossalmente in una contesa generata da una fuga di adrenalinica violenza che sbanda in frenate ritmiche dalla modulazione melodica, ad indicare le discrepanze di un futuro appassito in rovine di note gementi una lugubre decadenza.
Virtuosismo intricato fin dall’omonima first track “Black Future”, vortice di accordi danzanti su riff robusti e ritmi martellanti rapiti dalla velocità di corse up tempos che si stemperano in esibizioni di carattere progressive, accoltellate dalle vocals di David DiSanto, capace di uno scream dinamitardo e spietato. Incipit dalle distorsioni pregevolmente architettate in “Oblivion”, ovvero il momento precedente la morte: un’analisi attraverso lo stato mentale dell’anima precedente il trapasso e la successiva desensibilizzazione dell’individuo che si crogiola nel nulla di una realtà nichilista:
“Souls rip through the skin into oblivion. Reborn into nothingness”
Riff velocissimi scorrono repentini attraverso il consueto alternarsi di ritmiche vertiginosamente esaltanti che travolgono con l’impeto di una cascata, perdendosi e ritrovandosi in fiotti dalle infinite correnti e creando un inseguimento spasmodico che si discioglie negli angoli più remoti di un qualche astro ai limiti dell’universo.
Bellezza deprimente si svela nei primi accordi di “Destroying the Cosmos” espressa da riff delicatamente sfibranti prima che una nuova rissa di suoni magistralmente diretti scaraventi qualsiasi metaller abbia temprato il cuore d’acciaio in una bolgia d’energico headbanging degno della deflagrazione di un cosmo in briciole.
Ennesimo cambio di registro, ed ecco che palpiti melodici aprono “Forests of Legend”, cancellandosi d’improvviso per accelerare folli corse di strumenti che sembrano animarsi degli spasimi di cui si nutre l’angoscia desolante che trafigge le membra, vittime di una sottile agonia. Una prova eccellente da parte del quartetto: vocals stridenti in estrema dissonanza, lasciando che le chitarre evocative di DiSanto e Nelson confluiscano nello splendido lavoro di drumming firmato Blake Anderson mentre l’incalzante tempesta al basso di Frank Chin ossessiona una struttura composita al limite del puro virtuosismo strumentale per dieci minuti di eterogenea maestria che scorrono come secondi.
Produzione di notevole qualità e spunti compositivi mai ridondanti per le successive “Hunger for Violence”, “Deoxyribonucleic Acid”, “Asteroid” e “Dark Nebula”, fino alla summa ultima “Accelerating Universe”: attestati di una destrezza trita rocce incredibilmente matura se rapportata alla giovinezza di una band che dal punto di vista tecnico compositivo potrebbe elevarsi a ricevere lo scettro di realtà come i Voivod. Una tensione che sfocia nel tormento di riff che s’aggrovigliano in figure di fantocci conturbanti cristallizzati in un vuoto esistenziale che si rivela nei frantumi dell’illusorietà terrena. Imperdibile.
Lucia Cal
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Tracklist:
1) Black Future (5:02) * MySpace *
2) Oblivion (4:53)
3) Destroying the Cosmos (6:45)
4) Forests of Legend (10:14)
5) Hunger for Violence (5:29) * MySpace *
6) Deoxyribonucleic Acid (4:44)
7) Asteroid (6:47)
8) Dark Nebula (10:26) * MySpace *
9) Accelerating Universe (13:28)
Line-up:
David DiSanto – Guitar & Vocals
Erik Nelson – Guitar
Blake Anderson – Drums
Frank Chin – Bass