Recensione: Black Hand Inn

Di Paolo Beretta - 30 Dicembre 2003 - 0:00
Black Hand Inn
Band: Running Wild
Etichetta:
Genere:
Anno: 1994
Nazione:
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95

Il mare, il vento che muove onde lunghe e possenti. La salsedine che diventa un tutt’uno con la pelle umida della faccia raggrinzita dal sole cocente che brucia. Una tempesta improvvisa degna dell’ira di Dio Nettuno mentre non c’è nulla per centinaia di miglia in nessuna direzione e tutte le preghiere sembrano cadere nell’indifferenza dell’incredibile forza della natura. Galeoni pronti all’arrembaggio. Lotte sanguinose tra pirati per rubare le preziose merci dall’America. Risse in sporche locande dove il rum scorre, lasciando il suo inconfondibile sapore pregnante in bocca. I Running Wild sono tutto questo trasportato in musica.

La “ciurma” di Rolf Kasparek nel 1994, dopo un capolavoro del calibro di Pile Of Skulls di due anni prima, torna sul mercato con il solito e inconfondibile Heavy Metal rude e grezzo che trasuda sentimento. Black Hand Inn è universalmente riconosciuto dai fans della band come una masterpiece imperdibile. Le chitarre di Kasparek e Hermann (ex Risk) mostrano, per tutta la durata dell’album, i denti con un riffing sempre pieno: La vera ossatura di ogni singolo pezzo del cd. I cori dalle melodie scarne ma geniali si coniugano con sublime perfezione ai ritmi, spesso veloci, che esaltano al massimo il funambolico Jòrg Michael (Ex Rage e Ex Stratovarius) che tuttavia, assieme al bassista Smuszynski, non si cimenta in molti cambi di passo.

Si comincia con The Curse. Un intro durante la quale si assiste ad una condanna al “Purifing Fire” da parte della Santa Inquisizione nei confronti del povero e coraggioso John. Unico resto del suo corpo bruciato dalle fiamme una “Black Hand” e da qui, signori e signore, la storia ha inizio…
…La title track Black Hand Inn infatti fa il suo ingresso dirompente con tempi incessanti che lanciano Rock’ N’ Rolf in un cantato pressoché continuo e spigoloso che si apre solo nel coro, quasi ipnotico nel suo continuo procedere. Mr. Deadhead mette in mostra le chitarre che fanno piovere metallo per 4 minuti di Heavy Metal diretto, arricchito nel finale da un bel solos lungo, veloce e di buona fattura. In Soulless invece il signor Kasparek tira fuori dal cilindro una Hit clamorosa che merita una lunga descrizione. Sono brani semplici e geniali come questo che mi fanno godere dall’inizio alla fine, che mi rendono fiero di ascoltare questa maledetta musica e che mi fanno ribollire il sangue nelle mie giovani vene. Dall’inizio alla fine la song gira attorno ad un irripetibile riffing turbolento che rompe l’aria e sostiene, con irrisoria facilità, sia le strofe cantate con passio ne che il refrain epico come pochi. I RW non accennano a rallentare nemmeno nella successiva Privateer; Power Speed Metal con la sezione ritmica (Michael e Smuszynski) sugli scudi mentre la voce metallica di Rolf non conosce pause. Con Fight The Fire Of Hate i nostri pirati si esibiscono in una marcia cadenzata dotata di ottime linee melodiche impreziosite da un chorus scarno ma deciso che “invita” il pubblico a farsi avanti in una gloriosa e sanguinosa lotta. The Phantom Of The Black Hand Hill dopo un breve inizio timoroso esplode in un mare di note che si accavallano e si scontrano in un disordine calcolato, di rara bellezza, fatto di break e assoli vibranti che lanciano diverse volte il refrain più scorrevole e “facile” del disco.
Freewind Rider esalta il superbo lavoro di basso di Smuszynski che, assieme alle immancabili chitarre gemelle, guida con autorità un brano intenso e trascinante che in sede live sprigiona al meglio tutta la sua potenza dirompente. Powder & Iron invece azzanna e attacca incessantemente le orecchie dell’ascoltatore. Non conosce per tutta la sua durata pause di alcun genere; prosegue travolgendo ogni cosa abbia il coraggio di mettersi sulla sua strada con una forza incredibile, presa chissà dove, che sembra non avere fondo. In Dragonmen le melodie sono più accentuate e il cantato non “morde” come al solito ma è più “dolce” e in sintonia con il delizioso solos finale. Chiudo citando l’elitaria Genesis. Una maratona metallica di oltre 15 minuti che, dopo un inevitabile parlato, lascia lo spazio a pause e ad alcuni cambi di tempo per un pezzo eterno e difficile che necessita molti ascolti per essere ben digerito.

Questo cd ha tutto quello che io ho sempre cercato nella musica: Melodia più forza devastante per un Power Speed Heavy Metal dal songwriting immenso di stampo ottantiano “made rigorosamente in Germany”. Consigliatissimo a chiunque ami un HM sano e vero e a chi, un po’ sazio delle tante decorazioni barocche in voga al momento, abbia ancora voglia di “sporcarsi” un po’ le orecchie con questo sound ruvido, affascinante e senza tempo.

Nota: la re-mastered edition ha 2 bonus track gradevoli (Dancing On A Minefield e Poisoned Blood) che, tuttavia, non ho voluto commentare in quanto, a mio parere, non aggiungono nulla ad un album già perfetto di suo.

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