Recensione: Black Knight
Folte chiome al vento, T-Shirt di Motorhead, Lemmy e Witchfinder General, cartuccere, polsini borchiati, chiodo, jeans e stivaletti, il tempo per i giovani svedesi Templar pare essersi fermato al 1983.
Non a caso, infatti, scelgono di pubblicare fisicamente – digitalmente esiste dall’anno scorso – il demo del loro debutto su musicassetta soltanto, in modalità totalmente old school e limitata a duecento esemplari e per farlo si avvalgono dei servigi della connazionale Jawbreaker Records di stanza a Hisingen, un’autentica istituzione in materia di nastri metallici: cento copie di colore bianco e cento nel classico nero d’ordinanza.
La formazione schiera Gustav Harrysson (chitarra), Teddy Edoff (basso), Adam Eriksson (voce) e Alvin Fligare (batteria). Il cartonato che accompagna la musicassetta si distende lungo quattro facciate che propongono i testi dei vari brani e una bella foto in bianco e nero della band a sfondo gotico.
Quattro sono i pezzi proposti dal gruppo di Stoccolma più un intro (“Fugue”) per quasi diciassette minuti di ascolto globale.
La direzione musicale dei Templari, come da previsione, non serba sorpresa alcuna: heavy metal di stampo classicissimo che fa riferimento alla premiata scuola anni Ottanta senza se e senza ma.
A partire da “Ode of Glory” sino ad arrivare a “Ringwraith” è un festival dei cliché del passato dai toni quasi romantici tanto i Templar assomigliano a una qualsiasi delle band Nwobhm dedite alla deriva più radicale del periodo. “White Wolf” e la successiva “Nightrider” sono dirette discendenti degli Iron Maiden prima maniera, Paul Di’Anno era, così come gli altri due brani, dalle diverse sfumature, permangono irrimediabilmente addentellati ai quei momenti.
Va bene tutto: l’attitudine, l’idolatria del metallo che fu, il fatto di volere risultare a tutti costi demodé ma è pur sempre vero che siamo nel 2024 e non nell’83, quindi pubblicare in qualsivoglia foggia un prodotto dal suono scadente non rappresenta un buon biglietto da visita, comunque la si voglia vedere. Quello che arriva dai quattro pezzi più intro degli svedesi è un qualcosa di perennemente ovattato che non rende per nulla giustizia alla loro carica aggressiva, che probabilmente esiste ma che non esce in nessun modo. Per capirci, il tipico demo risalente agli anni Ottanta da parte di una band nostra connazionale dedita all’HM più puro suona come Black Knight.
Da rivedere, quindi, ops… risentire, questi Templar, in un’occasione più consona. Per loro, in primis.
Stefano “Steven Rich” Ricetti