Recensione: Black Rivers Flow

Di Daniele D'Adamo - 29 Gennaio 2011 - 0:00
Black Rivers Flow
Band: Lazarus A.D.
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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68

I Lazarus A.D. sono un gruppo di giovani che suona da vecchi.

Questa perentoria affermazione, apparentemente poco lusinghiera per i destinatari, in realtà esprime per essi una nota di merito. Infatti, nonostante la loro verde età e il fatto che stiano assieme da soli sei anni, i Nostri suonano in modo adulto. Cioè, come se la loro carriera durasse da parecchi lustri e avessero un retroterra metal-culturale da uomini di mezza età.

“Black Rivers Flow” è, difatti, un album (il secondo, dopo “The Onslaught” del 2007) di una consistenza quasi incredibile; ove, appunto, la personalità è la peculiarità principale che i Lazarus A.D. mettono in pista. E, in genere, questo è un risultato cui si arriva dopo molti anni di gavetta e di esperienza. Da ciò deriva, come accennato, la forte sensazione di avere a che fare con della gente in età matura, ben conscia dei propri limiti e delle proprie possibilità.    

Le cronache avvicinano la band statunitense al thrash o meglio al groove metal. Tuttavia, sarebbe meglio scrivere di U.S. power, se ci si deve riferire al loro stile. Il che è un altro fatto desueto, per dei post-adolescenti in genere più attratti dal metalcore e/o dal deathcore. Un power americano che rimanda ai quei gruppi (Omen, Fates Warning, …) i quali, nella prima metà degli anni ’80, crearono un movimento che, di fatto, collegò l’heavy al thrash. E, se proprio si deve inquadrare uno spazio di manovra, per i Lazarus A.D., allora è sufficiente prenderlo, appunto, nel thrash.
Comunque sia, “Black Rivers Flow” è un possente insieme di canzoni una più potente dell’altra; un conglomerato duro e pesante, caratterizzato da un sound ad alto numero di watt. Il ritmo macinato da Jeff Paulick (basso) e Ryan Shutler (batteria) punta più sull’energia che sulla velocità, più sulla carica che sull’agilità; costruendo un’intelaiatura semplice ma robusta. Su questa, le chitarre di Dan Gapen e Alex Lackner tessono le loro armonizzazioni – anch’esse improntate su di una certa impetuosità – senza che si esageri nella complessità delle trame musicali; non mancando tuttavia di insistere nella produzione di riff semplici ma intensi, e di brevi, laceranti soli. Stupisce, ma non troppo date le premesse, la prestazione di Paulick quale cantante. Lasciando stare gli estremi (growling/screaming), questi si concentra su delle linee vocali pulite e potenti, perfettamente in linea con il sound della strumentazione sì da rinsaldare il tutto in un groove caldo e soffocante.
Lo stile del quartetto di Kenosha non ha melodia, con che la digestione del platter richiede parecchi giorni da passare con il lettore CD in perenne funzione. Alla fine, la bontà complessiva della proposta emerge e, anche se manca l’originalità, il carattere forte del gruppo e quindi del disco offre un ottimo spunto per ricaricare le batterie di energia. Ma si tratta, come si vedrà, dell’unico, vero punto di forza dell’album.  

Quindi, dalla dura scorza di “Black Rivers Flow” non è facile estrarre delle song che possiedano una facile accessibilità. Anzi, l’assieme è un malloppo denso da districare con pazienza; pazienza che, alla fine, rasenta la noia. Prediligendo solo la potenza, come peculiarità principale cui connotare una composizione, di questa non è che se ne possano fare molte varianti. Fra i vari macigni che piovono addosso all’incauto ascoltatore, spicca proprio la title-track, e non per caso, poiché il brano – unico fra i nove – ha un gran ritornello. Melodico pur possente, piacevole da ascoltare. Anche più volte. Per il resto, si tratta «solo» di pugni nello stomaco; diretti come “Casting Forward” o l’opener “American Dreams”. Canzoni maschie, senza fronzoli, fatte e finite per demolire la resistenza dell’auditorio. Senza che però, fra esse – a parte “Black Rivers Flow” – ci siano picchi di gran classe. Certo, “Light A City (Up In Smoke)” ha un bel ricamo di chitarra, all’inizio, e un piglio stentoreo che la accompagna lungo tutta la sua durata. “Through Your Eyes”, in virtù dell’alta tensione in gioco mieterà parecchie vittime, in sede live; così come “The Ultimate Sacrifice”. Come da copione, spesso si lascia per ultimo il boccone migliore. E se non il migliore, uno fra quelli più saporiti. In questo caso la responsabilità di chiudere degnamente “Black Rivers Flow” spetta alla lunga (rispetto alla media) “Eternal Vengeance”: cattiva e articolata, corre rapidamente verso il centro di potenza del full-length. Non male, appunto.

Difficile giudicare il lavoro, tirando le somme. Sembra che ci sia tutto, per arrivare all’eccellenza, ma così non è. La precisa esecuzione dei singoli episodi e la professionalità della produzione non si toccano, tuttavia non bastano. Non basta neppure la vigoria che i quattro del Wisconsin ci mettono, come non basta aver incentrato il sogwriting sulla ricerca della miglior resa di potenza. Manca il cuore, o meglio l’arte. Il saper, cioè, creare dal nulla un’opera che si distingua da tutte le altre. In questo quindi, consiste “Black Rivers Flow”: in un’espressione musicale senza infamia né lode. I Lazarus A.D. sono degli abili e decisi esecutori. Lo sono un po’ meno, bravi, come compositori.

Daniele “dani66” D’Adamo

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Track-list:
1. American Dreams 4:53
2. The Ultimate Sacrifice 4:53
3. The Strong Prevail 3:04
4. Black Rivers Flow 4:52
5. Casting Forward 3:56
6. Light A City (Up In Smoke) 3:49
7. Through Your Eyes 4:09
8. Beneath The Waves Of Hatred 5:04
9. Eternal Vengeance 7:03        

All tracks 41 min. ca.

Line-up:
Jeff Paulick – Vocals/Bass
Dan Gapen – Guitars/Vocals
Alex Lackner – Guitars
Ryan Shutler – Drums
 

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