Recensione: Black Seeds Of Vengeance
Da sempre le leggende delle antiche civiltà del passato hanno affascinato generazioni di artisti. Se due passioni come l’Antico Egitto e il Death Metal convergono nell’animo di un musicista, il risultato non può che essere qualcosa di sorprendente. Difatti, nell’ormai lontano 1993, Karl Sanders decise di dar libero spazio alle proprie aspirazioni, formando, insieme a Chief Spires (basso e voce) e a Pete Hammoura (batteria), i Nile.
Dopo un paio di EP e un buonissimo full lenght (Amongst the Catacombs of Nephren-Ka ), i Nile danno alla luce una vera e propria perla: Black Seeds Of Vengeance. La proposta musicale del gruppo è un death metal brutale, intricato e tecnico, con blast-beats a profusione e growls gutturali. Ma l’elemento caratteristico della loro musica è la continua ricerca di atmosfere evocative, di melodie orientaleggianti, di momenti di pura epicità, il tutto mantenendo un livello di potenza e tecnica sorprendenti. Infatti, nonostante il grande lavoro sugli arrangiamenti e nella stesura delle tracce, il disco non perde mai in compattezza e i quasi tre quarti d’ora di musica scivolano via senza intoppi.
Una breve intro strumentale ci accompagna alla scoperta della title track, song in cui possiamo trovare tutto ciò che ci aspetta nel prosieguo del disco. Sanders e Dallas Toler-Wade (entrato nella band nel 1997) sparano riff a velocità mostruosa, accompagnati da una sessione ritmica devastante e da un cantato che pare provenire da un’impenetrabile piramide. Cambi di tempo repentini, assoli velocissimi ma eseguiti con un gusto melodico notevole, esplodono nel finale con uno stacco epico da brividi. Tutte le tracce presenti sono di alto livello, e inserite in scaletta in modo tale da farci vivere momenti di relativa quiete dopo le mazzate sonore che colpiscono i nostri timpani. Sicchè è difficile estrapolare le varie canzoni al di fuori dal contesto generale del disco. Ma come non segnalare la furia di Defiling The Gates of Ishtar, l’esplosione di The Black Flame dopo una breve litania che ricorda la sinuosità di un serpente a cavallo delle dune. Le emozioni si susseguono l’una dopo l’altra fino ad arrivare a quella che, per me, è la song migliore del lotto: Masturbating The War God. L’apice compositivo si apre con una partenza a 300 all’ora, le chitarre tessono melodie fantastiche pur non rinunciando all’impatto sonoro (davvero notevole), per poi rallentare in riff cadenzati ed evocativi, che fanno da introduzione all’ennesimo cambio di tempo che sfocia in un assolo grandioso. Ci stiamo ancora dimenando quando il tutto viene sapientemente rallentato, per poi ripartire in un vortice di emozioni che raggiungono l’apoteosi grazie ad inserti sinfonici, percussioni, suggestivi cori, che si amalgamano ottimamente con la furia dei quattro deathsters americani. Un brano davvero incredibile, un susseguirsi di stacchi e ripartenze da brividi, che le parole non riescono a descrivere. Il disco prosegue senza sosta proponendoci tre songs velocissime che non tradiscono le aspettative fino a giiungere alla decima To Dream of Ur. Questa è una lunga composizione (oltre i 9 minuti) dove strumenti a corde evocano atmosfere magiche e marziali. Questa traccia può essere considerata un esperimento (sicuramente riuscito) che vedrà la massima espressione in Unas Slayer Of The Gods (presente nel terzo disco della band). Seguono poi due “strumentali” che che ci conducono verso la fine del disco. L’ultima Khetti Satha Shemsu è un’inquietante invocazione alla divinità Khetti Satha, una divinità espressa nella forma di serpente gigante.
L’ultima traccia offre uno spunto interessante: i testi. Tutti i testi presenti sono incentrati sul tema dell’Antico Egitto e sui miti ad esso legato. Nel booklet sono presenti anche le relative spiegazioni, che risultano fondamentali per la comprensione generale dell’album. Sanders cura il lato delle lyrics tanto quanto il lato prettamente musicale. I temi prendono spunto da antichi papiri, da traduzioni di tavole cuneiformi provenienti da templi recentemente scoperti. Nella title track, ad esempio, viene ricordato il popolo nomade del deserto (gli Amalachite) che erano soliti compiere razzie e violenze a discapito non solo della popolazione egiziana, ma anche degli ebrei ridotti in schiavitù, e di come in un gruppo di persone siano germogliati i neri semi della vendetta.
Riguardo alla produzione posso dire che è ben riuscita, i suoni non sono troppo impastati (nonostante il macello sonoro sprigionato) e gli strumenti sono abbastanza distinguibili. Avrei preferito una produzione che mettesse di più in risalto lo splendido lavoro delle chitarre, ma questa è solo una considerazione personale.
In conclusione posso solo consigliarvi l’acquisto di questo disco. Rimarrete sorpresi da come i Nile, partendo da un suono di scuola death americana, riescano a dare un’identità e un trasporto alla propria musica. I 4 americani sono riusciti a portare una ventata d’aria nuova nel panorama del metal estremo. Sono sicuro che Sanders e soci saranno un termine di paragone per ogni musicista che aspiri a suonare musica brutale.
Nota: alla realizzazione di questo disco ha collaborato anche Derek Roddy, batterista che ha militato in gruppi del calibro di Malevolent Creation, e ora menbro degli Hate Eternal.
Tracklist:
1. Invocation Of The Gate Of Aat-Ankh-Es-En-Amenti
2. Black Seeds Of Vengeance
3. Defiling The Gates Of Ishtar
4. The Black Flame
5. Libation Unto The Shades Who Lurk In The Shadows Of The Temple Of Anhur
6. Masturbating The War God
7. Multitude Of Foes
8. Chapter For Transforming Into A Snake
9. Nas Akhu Khan She En Asbiu
10. To Dream Of Ur
11. The Nameless City Of The Accursed
12. Khetti Satha Shemsu