Recensione: Black Water
Le memorie che abbiamo dei Fist of Rage si perdono, letteralmente, nella notte dei tempi.
Era l’ormai remoto 2010 quando la band friulana pubblicava con pieno merito l’interessante debutto “Iterations to reality”, esempio invero efficace di heavy rock classicheggiante, ben costruito e pensato, ricco di buoni spunti tanto da lasciar presagire un prosieguo di carriera foriero di un certo numero di soddisfazioni.
Nulla di fatto, invece, se è vero che, per ottenere un concreto seguito al buon esordio di nove anni fa, è stato necessario attendere sino alla conclusione del 2018, periodo d’uscita dell’altrettanto valido “Black Water“, secondo capitolo discografico del gruppo guidato dal singer Piero Pattay e dai fratelli Alessandrini, oggi come allora, supportato dalla romantica passione in forza ad un’ottima etichetta come Andromeda Relix.
Il canovaccio esibito, nonostante gli anni trascorsi, non è – dopo tutto – cambiato sensibilmente.
Sempre alle prese con un acceso heavy rock a cavallo tra US Metal, Deep Purple, Rainbow, accenni progressive e spruzzate ottantiane, la formula proposta dai Fist of Rage fa dell’immediatezza un credo irrinunciabile e sistematico, reso esplicito da una serie di brani che poggiano sulla tipica impostazione heavy rock.
Riff dalla forte caratterizzazione metal, ritornelli per lo più melodici ed un approccio autentico, rotondo, maturo. Non esattamente essenziale ma, in ogni modo, dotato di un’impostazione che va diretta al sodo. Non senza tuttavia, concedersi il lusso di qualche divagazione strumentale dal sapore prog, mediato da atmosfere spesso drammatiche e cariche di tensione.
Non sono di certo una band “spensierata” o leggera i Fist of Rage: sin dall’interpretazione intensa di Pattay è possibile percepire come la musica sia un mezzo per esternare stimoli emotivi alimentati da una personalità propria ed indipendente. Che fa delle ispirazioni un veicolo per la costruzione di uno stile multiforme, nervoso e per nulla statico.
Non sono probabilmente perfetti nello sviluppo della loro teoria musicale, tuttavia va dato atto ai Fist of Rage di essere stati in grado di alimentare un modo di espressione ben bilanciato tra le pulsioni istantanee del metal e le evoluzioni introspettive del prog.
Prendiamo un brano come “Set Me Free” (uno degli apici del disco) quale utile esempio: ci sono i Rainbow di sottofondo, le tastiere dei Dream Theater in evidenza, deviazioni prog anni settanta ed un qualcosa che – come già accaduto nel debut – fa venire di tanto in tanto alla mente i Labyrinth come corollario.
Il risultato tuttavia, non assomiglia praticamente a nulla: potrebbe essere paragonato a mille cose differenti, ma in realtà, al termine dell’ascolto, appartiene solo a questo “Black Water” ed ai Fist of Rage che l’hanno saputo costruire e mettere su disco.
Una descrizione che potrebbe essere messa a regime praticamente per l’intera tracklist: la mescolanza tra Deep Purple ed Uriah Heep dell’iniziale “Just for a While” è solo il preludio alla freschezza melodic metal della successiva, urgente, “New Beginning” ed alla rocciosa “Between love & Hate“. O alle pungenti cadenze di scuola Blackmoriana riscontrabili in “Awake”.
Ascoltando ogni traccia si ha, spesso, la sensazione di poterne individuare con facilità eventuali somiglianze: eppure alla loro conclusione l’idea complessiva è quella di pezzi esclusivi e “liberi” da influenze troppo ingombranti, elaborati con la consapevolezza di chi ha comunque tre lustri buoni di esperienza nel maneggiare “la materia” con la dovuta destrezza.
Questo è, in sostanza, “Black Water” dei Fist of Rage.
Un album magari non impeccabile in qualche frangente (la centrale “Mudman” ad esempio, ci è apparsa un po’ tediosa e prolissa), ma comunque scritto ed allestito con la personalità e la sicurezza di chi ha una statura artistica di buon livello e sa di poterlo dimostrare senza grossi problemi.
Buon disco insomma e doveroso recupero nonostante una data di pubblicazione non proprio recentissima.
Una conferma importante per un secondo capitolo che arriva eoni dopo il primo ma fa ancora ben sperare per quel che verrà.
Ora che succede? Ci risentiamo nel 2026 o magari la prossima volta un po’ prima, ragazzi?