Recensione: Black Widow
Quando si parla e si scrive di Black Widow, la maggioranza degli appassionati richiama subitamente alla propria mente la copertina e la musica dell’album Sacrifice, vero masterpiece dark-progressive della band di Clive Jones e Kip Trevor. Dopo averlo recensito parecchio tempo fa sulle pagine di TrueMetal (chicca: dopo qualche mese dalla pubblicazione fra i classici mi scrisse addirittura Clive Jones in persona via e-mail facendo riferimento a una traduzione “maccheronica al contrario” del mio articolo fatta da un suo amico inglese…), mi sono letteralmente buttato a pelle d’orso sull’Lp Black Widow fatto uscire dalla Akarma recentemente, procurandomi rigorosamente la versione in vinile.
La lussuosa confezione in cartone pesante, oltre ad avere utilizzato il vinile vergine di 180 grammi (che garantisce un’ottimizzazione della resa di ascolto per gli LP), contiene, alla stessa maniera di quanto fatto per Live in Basel dei Toad (recensito poco tempo fa sempre su TrueMetal), la recensione al disco fatta dal grande Beppe Riva, decano dei giornalisti HM in Italia. Mi permetto di fare un inciso relativamente a Beppe: seppur al momento non più impegnato in maniera continuativa nell’editoria cartacea, non manca occasionalmente di confezionare commenti approfonditi per alcuni dischi in uscita, fatto che personalmente ritengo assolutamente incommensurabile come valore aggiunto a uscite come questa.
Black Widow: la band
I Black Widow di Leicester, fin dalla loro prima incarnazione, si erano proposti come la più credibile, finanche più intelligente, alternativa ai Black Sabbath di Birmingham. Le loro performance dal vivo, oltremodo sopra le righe e fedeli a un rigoroso rituale, preclusero ai Nostri i favori di un pubblico più vasto. Le vendite al di sotto delle previsioni di Sacrifice e le pressioni del produttore e manager Patrick Meehan Jr. (lavorò anche con i Black Sabbath), minarono la convinzione della band di poter utilizzare il messaggio musicale per promuovere l’interesse pubblico nell’occulto.
Questo cambio direzionale fece le prime vittime: rispettivamente il batterista Clive Box venne rimpiazzato da Romeo Challenger e il bassista Bob Bond da Jeff Griffith. La line-up si completa con Jim Gannon (chitarra), Zoot Taylor (organo e piano), Kip Trevor (voce) e Clive Jones (flauto e saxofono). Come spesso accade in questi casi (vedi Exciter, Metallica, e altri nomi più o meno illustri), l’album omonimo non esce come opera prima, ma in tempi successivi, proprio per significare un nuovo corso della band, scevro delle influenze magiche e ossianiche che fino ad allora ne avevano accompagnato il monicker.
Black Widow: il disco
Nell’aprile del 1971 Black Widow campeggia nelle vetrine dei negozi di dischi di mezza Europa (nell’altra mezza, la meno bigotta, fece la sua comparsa alla fine del 1970), con una copertina intrigante, anche se sicuramente più accessibile rispetto a Sacrifice. La versione della Akarma, famosa fra i puristi per la cura maniacale con la quale confeziona i propri lavori, restituisce nella sleeve interna i musicisti coinvolti sotto forma di immaginette tombali, tanto per gradire…
Il fatto di scrollarsi di dosso l’etichetta di band maledetta sortisce, come accade nel novantanove per cento dei casi assimilabili a questo, l’effetto esattamente contrario a quello sperato. I Nostri cercano di scrivere un album di progressive variegato, con influenze che spaziano dal folk, alla psichedelia, al blues, al jazz e ovviamente all’hard rock, che però irrimediabilmente mostra il limite musicale della band, che senza l’anima nera alla quale era legata indissolubilmente, perde la magia che era esplosa in maniera devastante in Sacrifice.
Non che Black Widow sia un brutto album, assolutamente! E’ SOLO un bell’album di progressive rock che non fa gridare al miracolo… d’altronde dopo Sacrifice sarebbe stata un’opera improba per chiunque riuscire a superarsi. Il disco parte con Tears and Wine, brano che, nonostante la buona prova ai fiati di Clive Jones non riesce a decollare, sorte alla quale non sfugge nemmeno la successiva The Gypsy. Dopo la trascurabile Bridge Passage, finalmente i Black Widow tornano agli antichi splendori consegnandoci un pezzo da novanta come When my Mind was Young: atmosfera, gusto e ispirazione a quintali, con cori alla Yes! Il lato A si chiude con The Journey, senza infamia e senza lode.
E’ però la side B del vinile quella che dà le maggiori soddisfazioni: Poser contiene un assolo di flauto di Clive Jones da incorniciare, evocando il fantasma di Roland Kirk, mentre Mary Clark è, a mio avviso, l’highlight del disco, un evergreen da leggenda con un Trevor ispirato e narrativo che ci consegna uno dei pezzi migliori della storia della vedova nera, narrando le vicende di una dannata prostituta. Waiting until Tomorrow è più heavy mentre in Afterthought si ritorna su binari più prettamente progressive. La chiusura è affidata all’onirica Legend of Creation, pregna di duelli fra la chitarra di Gannon e l’organo di Taylor che in qualche maniera si “ribellano” alle fughe jazzistiche del brano.
Black Widow non è al livello di Sacrifice?
E’ vero, ma, come si dice dalle mie parti: a veghan da disch anscì! (traduzione: averne di dischi così!).
Stefano “Steven Rich” Ricetti