Recensione: Black Wings of Destiny

Di Alessandro Calvi - 29 Settembre 2005 - 0:00
Black Wings of Destiny

Nata come side-project per un solo album, la band capitanata da Erik Peterson (Testament) giunge invece alla seconda pubblicazione con questo “Black Wings of Destiny”. La continuazione di questa esperienza è da ricercarsi nelle parole dello stesso Peterson quando, a ridosso dell’uscita del primo album, disse che i Dragonlord, nati inizialmente come una sorta di “one-man-band”, si erano rapidamente evoluti in un gruppo di amici con una tale sintonia tra loro da aver sfornato tanto di quel materiale che il secondo disco era già quasi pronto.

Il sound dei Dragonlord si distacca nettamente da quello della band originaria di Peterson, propone infatti un black-metal sinfonico pesantemente influenzato dalla scena nord-europea, in primis le ultime cose fatte sentire dai Dimmu Borgir. Il fatto però che gli stessi Dimmu Borgir, prima su “Puritanical Euphoric Misanthropia” e poi su “Death Cult Armageddon” abbiano introdotto nella propria musica rimandi sempre più evidenti a thrash e death di chiara matrice americana, potrebbe dare adito a un circolo vizioso in cui è meglio non addentrarci.

L’intro dell’album è demandata a un breve brano strumentale di chiaro sapore sinfonico, fondamentalmente niente di nuovo sotto il sole, ma con la giusta dose di magniloquenza e pomposità, tipica di una colonna sonora da film horror, che si addice al genere. Nota di demerito a mio avviso, l’uso della voce pesantemente filtrata per dare un tono di maggiore inquietudine, un growl di buona fattura avrebbe probabilmente giovato maggiormente al pezzo. Prima vera canzone del disco è quindi “The Curse of Woe”, brano che è anche una sorta di manifesto per ciò che ci aspetterà lungo tutta la scaletta del cd. La traccia, che è la naturale continuazione della precedente, lo è anche, e purtroppo, nell’uso della voce filtrata. Per fortuna questa scelta non è adottata su tutte le parti vocali, ma il risultato lascia comunque a desiderare. Decisamente più interessanti invece i punti più veloci e violenti dove gli strumenti si esibiscono da soli e si intrecciano tra loro, soprattutto grazie alle tastiere e al curioso uso di suoni di campane per le stesse.
Quando la voce abbandona il filtraggio elettronico purtroppo però bisogna ammettere che il risultato non migliora assolutamente. Anzi, al contrario lo stile di cantato di Peterson, una specie di growl/scream quasi aspirato che ricorda quasi la voce di una persona che sta soffocando, risulta almeno a me spesso un po’ difficile da digerire.
Decisamente più interessanti e validi invece i passaggi di sapore più propriamente thrash, dovuti ovviamente principalmente alle chitarre, in cui la genuinità e la qualità dei riff risultano sempre di buon livello. Il songwriting risulta piuttosto elaborato, gli intrecci tra gli strumenti sono sempre interessanti e gestiti bene. Al contempo le composizioni sono piuttosto orecchiabili e non troppo difficili da ascoltare, forse l’unica pecca da questo punto di vista è una certa prolissità di alcune canzoni che forse con un minuto e due in meno avrebbero potuto rendere di più.

La produzione è buona, sempre potente e precisa, probabilmente anche perchè realizzata da Fredrik Nordström (già al lavoro, guarda caso, tra gli altri con i Dimmu Borgir), mentre le registrazioni sono state completate ai Fredman Studio. Tutte garanzie ottimali, ma che nel caso di una band dal sound non estremamente personale, possono portare a una leggera deriva musicale verso suoni già sentiti in precedenza.

In conclusione si tratta di un disco discreto, ben suonato e piuttosto ispirato. Con ogni probabilità non passerà alla storia del genere e non diventerà un punto di riferimento per il futuro, ma potrà assicurare qualche buon momento agli appassionati.

Tracklist:
01 The Becoming Of
02 The Curse of Woe
03 Revelations
04 Sins of Allegiance
05 Until the End
06 Mark of Damnation
07 Blood Voyeur
08 Fallen
09 Black Funeral
10 Emerald

Alex “Engash-Krul” Calvi