Recensione: Blacklist

Di Daniele D'Adamo - 23 Dicembre 2010 - 0:00
Blacklist
Band: Hatenation
Etichetta:
Genere:
Anno: 2010
Nazione:
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60

Quando si ha a che fare con una band come gli Hatenation, i parametri che ciascuno di noi costruisce col tempo per classificare i generi metal subiscono un duro colpo. Sì, perché gli spagnoli fanno quello che dovrebbe essere il «metal» del terzo millennio («modern metal»). Quello, cioè, che dovrebbe rinnovare il concetto di «heavy» generico rimescolando così tutte le carte sul tavolo accatastate nel corso degli anni con tanta pazienza (heavy metal, doom, thrash, sludge diventano entità del tutto relative…).
Personalmente, su questo fatto non sono così d’accordo ritrovando ancora intatto, in giro, lo spirito primigenio che ha generato gli Iron Maiden e compagnia cantante. Meglio, allora, riferirsi a una forma di metal duro, feroce, spigoloso, avvolgente e (teoricamente) coinvolgente: il «groove metal» che, sempre personalmente, ha ancora molto a che fare con il vecchio thrash.
Per fare un paragone, si può immaginare la musica dei Lamb Of God, dei Down, degli Ektomorf o dei Soulfly. Nel nostro caso, però, più edulcorata, meno aggressiva.

Il quintetto spagnolo, nato dalle ceneri degli estinti Afterlife, non ci ha messo molto a raggiungere il debutto discografico. L’anno scorso, poco dopo la registrazione di un demo con il loro vecchio nome, i catalani hanno firmato con la SAOL e sono quindi entrati in sala di registrazione per la lavorazione di “Blacklist”, primo album di un cammino, si spera per loro, lungo e ricco di soddisfazioni.

Nonostante l’anzidetta similitudine con i più noti gruppi di groove mediante un approccio musicale meno estremista; potenza, rabbia e odio sono comunque elementi imprescindibili a supporto, anche, dei temi del disco. Che, bisogna dirlo, conserva inalterata la freschezza compositiva della band di Barcellona; la quale, peraltro, non rinuncia certamente a premere il piede sull’acceleratore. Non aspettatevi quindi un prodotto per il mercato del facile ascolto o destinato a diventare un tormentone di MTV et similia: “Blacklist” è tosto, ruvido e cattivo. Kike e Igna Jover innalzano un muro di suono mica da ridere, fra riff pesanti come il piombo e soli laceranti; così come non ci mette molto L. Fontes a pestare come un dannato sulle pelli, coadiuvato dal rimbombo pressante e continuo del basso di Sting (sic!). Suggella il tutto Carlos, con la sua ugola al vetriolo. Aspra e quasi fastidiosa, la sua voce sfora a volte (poco) nel growl, a volte (molto) nello scream; contribuendo in maniera decisiva a formare il sound scorbutico del combo iberico. Sound che, come suggerisce il colore dell’artwork del CD, si rivela anche melmoso, in grado cioè di intrappolare nei meandri delle song l’incauto ascoltatore che ne venisse in loro contatto. Uno stile, per terminare la relativa disanima, assai più originale e personale di quello proposto da groove metal band ben più note dei Nostri.

Quel che non convince, e qui rientriamo nei ranghi (Ektomorf), sono le canzoni. Sembra quasi che gli Hatenation si concentrino solo e soltanto sulla ricerca del «giusto» sound nella sua globalità, tralasciando la scrittura dei singoli brani. L’insieme, cioè, ha tutte le caratteristiche necessarie per essere definito un «buon prodotto». Preparazione tecnica, esecuzione e produzione sono impeccabili. Questo però non basta, per far volare in alto “Blacklist”. Manca la scintilla della classe compositiva. Quella, cioè, che segna il confine fra la normalità e il talento. La cartina al tornasole che, prima degli altri parametri di riferimento, mostra la sostanziale mediocrità del songwriting di Carlos e compagni, è quella che evidenzia la noia. Anche in questo caso, ma in negativo, viene in aiuto la copertina del disco. Incolore e monotona. Come gli undici episodi dell’opera, appunto. Anche a ripetere gli ascolti differenziandoli pure nel tempo, non ci si riesce a scrollare di dosso la sgradevole sensazione di pesantezza che deriva dal non aver digerito. Difficile se non impossibile ricordare almeno un brano, fra quelli in gioco (forse “N.E.P.”, abominevole sfuriata di trentotto secondi…). Fra dissonanze poco accattivanti (“Traces”) e lenti mortiferi (“Sons Of The Shamed God”) emerge, a mio parere, la sola “In The Middle Of Nowhere”; dal ritmo scoppiettante e dal mood profondo. Una canzone completa nella costruzione del ponte e del ritornello, dotata di un ottimo solo di chitarra a fare da ciliegina sulla torta. Una canzone che, se fosse rappresentativa della media delle altre, cambierebbe la storia dell’album.

Album che merita la sufficienza per la coraggiosa attitudine dell’ensemble ispanico nella ricerca di uno stile personale, di difficile assimilazione e quindi ricercato. Non di più, poiché non credo che “Blacklist” sarà ricordato, in futuro, per la particolarità di una sua canzone. Un’occasione persa. Peccato.

Daniele “dani66” D’Adamo

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Track-list:
1. Countdown 4:42
2. Pain 3:46
3. Internal Sickness 5:00
4. Visions 4:22
5. In The Middle Of Nowhere 3:13
6. Dread Sky 4:14
7. Blacklist 4:01
8. Traces 4:22
9. Sons Of The Shamed God 4:41
10. Unknowledge Fields 5:28
11. N.E.P. 0:38

All tracks 43 min. ca.

Line-up:
Carlos – Vocals
Kike – Guitar
Igna Jover – Guitar
Sting – Bass
L. Fontes – Drums
 

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