Recensione: Blackout
Preso in prestito il moniker dalla fortunata serie televisiva Twin Peaks, il brillante quintetto norvegese Audrey Horne si appresta a pubblicare il nuovo “Blackout”, il secondo album della loro seconda fase esistenziale all’interno del music business. Ex bombardieri dediti a death/black metal in formazioni che per rispetto e decenza a quant’ora prodotto mi asterrò’ dal nominare e dopo alcuni lavori iniziali di assemblaggio – distanti miglia e miglia da quello che ci propongono ora – sembra che sia arrivato il momento per AUDREY HORNE di spiccare il volo!
La formula adottata dalla band era già ben nota nel 2014, quando si fecero notare con l’ottimo “Pure Heavy”. Trattasi di rivisitazione e rimodernamento di classic rock/hard’n’heavy il cui principale punto di riferimento e copyright è detenuto dagli irlandesi Thin Lizzy, e sto parlando del songwriting di Phil Lynott, le doppie chitarre infuocate di Scott Gorham/Gary Moore/Brian Robertson e John Sykes, spruzzate di NWOBHM nonché echi settantiani Made in Deep Purple…E chi ne ha più ne metta. Detto questo, c’è la voglia di puntare in alto alle classifiche con un album che al suo interno contiene svariati potenziali hit single come la title-track (chi riscontra qualche analogia con la Pat Benatar di “Hit Me With Your Best Shot” direi che è sulla giusta strada). Fossimo dei paranoici complottisti afflitti da dietrologia perenne, parleremmo di operazione messa a punto a tavolino, perché “Blackout” assume in qualsiasi dettaglio le sembianze di un disco della NWOBHM (l’attacco di “Naysayer” è puro Saxon sound), preoccupandosi solo di aggiornare la qualità di registrazione agli standard moderni. Lo sviluppo tambureggiante di un brano – splendido – come “This Is War” ci porta a un paragone con l’irresistibile incalzare dei Diamond Head di “Lightning To The Nations”, tal paragone sembra reggere anche per quanto riguarda la voce squisitamente pulita e piuttosto leggera di Toschie, come si usava all’epoca e – senza gridare allo scandalo – sentiamo anche qualche reminder all’hit single “Call Me” di Blondie durante lo sviluppo dello stesso brano.
Niente urla spacca gola, né falsetti, tonalità strane o muggiti bovini, solo la narrazione accorata dei tipici cliché del rock inglese, con il trasporto che occorre per rendere vivide nella mente certe musiche passate – tristemente – di moda da oltre 30 anni. La formula con 10 brani (12 nella deluxe edition dove troviamo per completezza altri 2 brani favolosi) evita fillers inutili, questo è un disco carico, intenso di classico Arena Rock fatto per orecchie e cuore da tutte le angolazioni che lo si guardi: musicalità, contenuto lirico e produzione. Potremo continuare a spendere fiumi di inchiostro parlando di questo grande album di classic-rock, ma il risultato almeno qui, in Italia, sarà sempre lo stesso… Senza il solito strombazzamento mediatico certa musica non troverà mai ampi consensi: gli stessi Thin Lizzy sono sempre stati colpevolmente ignorati! Mentre, per quel che concerne il successo di Audrey Horne in altri paesi come Svezia, Norvegia o Germania ritengo sia davvero dietro l’angolo! Unico appunto: la copertina feticcio baby Cthulhu fa tanto design per arredo pseudo gay para psicopatico…ma sono dettagli su cui sorvoliamo volentieri! Phil Lynott avrebbe sorriso compiaciuto all’ascolto della conclusiva “Rose Alley”, vero tributo alla band di Dublino!