Recensione: Blessing of Despair

Di Daniele D'Adamo - 4 Ottobre 2024 - 0:00

Ed è giunto il momento per il secondo parto dei Devenial Verdict. Una creatura di nome “Blessing of Despair” che, precoce com’è, mette a dura prova le orecchie con un death che definire sperimentale è dire poco.

Sempre di death si tratta, ma di quello, diciamo così, che va per la maggiore in questo anno bisestile. Quindi, prima di tutto, le contaminazioni spurie. Talmente numerose da far venire il dubbio che “Blessing of Despair” sia davvero un’entità death metal.

I dettami di base ci sono, riferiti però a quelli che erano implicati nella genesi del genere, quasi quarant’anni fa. Pertanto, per prima cosa, occorre porre l’attenzione su un sound che imposta le sue fondamenta in un sound sporco, fangoso, ma anche tenebroso, buio, oscuro e, soprattutto, visionario.

Quest’ultima caratteristica si deve all’immane lavoro di Sebastian Frigren alla chitarra. Immane, giacché egli sonda in profondità cosa significhi impostare una sezione ritmica dura, massiccia, complessa; incurante di rendere alla perfezioni divagazioni che giungono sino a echeggiare spifferi di folk arabo (sic!). Non solo questo, ovviamente, ma la quantità abnorme di accordi, come più su accennato, rende ardua una classificazione. Ascoltandolo con attenzione, tuttavia, la differenza con il riffing classico del death si percepisce spesso e volentieri, come il richiamo primario, che è quello allo sludge.

Immane, anche, la produzioni di accordi e assoli che tracciano linee derivanti dalle allucinazioni che avvolgono il cervello. Linee immaginarie che solcano oceani di mota marrone scuro se non nero come la pece. Durante i primi ascolti si nota una frattura fra ritmica e solista, come se ciascuna di essa andasse di conto proprio. Poi, a mano a mano che si prosegue, il legame si stringe.

E questo, forse, grazie a Riku Saressalo, cantante che ha il growling come prima emanazione vocale. Profondo anch’esso nel cercare qualcosa di concreto nell’animo. Tuttavia anche Saressalo ha un approccio alla questione simile a quello di Frigren, nel senso che emette suoni che coinvolgo le harsh e clean vocals. Per non dire di versi, suinate, e chi ne ha più ne metta.

Non sfugge a questa filosofia cangiante tre volte al secondo anche la sezione di spinta. Okko Tolvanen è un batterista chiaramente molto preparato, che movimenta senza interruzioni di sorta un drumming lambiccato (troppo?). Non mancano neppure furibonde sfuriate dettate dai mostruosi BPM dei blast-beats. Il basso di Antti Poutanen si ode chiaramente negli istanti più lenti e cadenzati del disco ma anche quando il gruppo accelera verso mondi sconosciuti.

L’LP, anche dopo reiterati ascolti appare caotico, senza un più fine filo conduttore che lo renda un minimo lineare e quindi adatto a un pubblico di appassionati della sperimentazione, della progressione e dell’evoluzione. Fattori che, assieme alla ridetta visionarietà, conducono a un insieme di canzoni, dieci, la cui identità è estremamente complicata da svelare.

Blessing of Despair“, insomma, sembra un’opera composta da un solo brano. Ciò potrebbe anche essere un concetto interessante. Tant’è che a tratti, oltre a tutto quanto rilevato, appare addirittura la melodia (“A Curse Made Flesh“), giusto per rilassare un po’ i neuroni. Tuttavia almeno a parere di chi scrive, deve esserci un limite a tutto. Anche alla voglia di progredire a tutti i costi, senza rischiare di dare i pasto ai più intrepidi ascoltatori una cacofonia senza capo né coda.

Concludendo, non si può non rimarcare la bravura tecnica ed esecutiva di Frigren e compagni, davvero musicisti di spessore, con un evidente, invidiabile retroterra culturale. Con “Blessing of Despair“, ciononostante, probabilmente hanno esagerato con la loro fame di doversi distinguere dagli altri, sbagliando nella realizzazione di un lavoro accurato in ogni dettaglio ma anche esageratamene astruso e, pertanto, inesorabilnente noioso.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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