Recensione: Blind Marmots
I Blind Marmots vengono da Padova e propongono un divertente mix di stoner, doom, sludge e di quell’hard rock acido e irriverente che pesca spesso e volentieri dal punk e dall’hardcore.
L’album d’esordio, auto intitolato e autoprodotto, vede il quintetto composto da Ale Segantin alla voce, Carlo Toffano e Thomas Corelli alle chitarre, Pietro Gori al basso e Luca Campagnaro alla batteria alle prese con sette canzoni piacevoli e vivaci ma non esenti da alcune – perdonabili – ingenuità.
La pecca principale è con tutta probabilità costituita dalla prestazione vocale di Segantin, non insufficiente ma certamente foriera di enormi margini di crescita, sia dal punto di vista dell’intonazione sia – soprattutto – dal punto di vista della pronuncia.
Volendo poi essere un po’ cattivelli occorre far altresì notare che la proposta non è delle più originali, pescando a piene mani da stilemi collaudatissimi e già sfruttati da moltissime altre band del passato (a partire dai Black Sabbath, che riecheggiano nei tempi rallentati di “Kill Your Parents” e di “Despise”, fino agli onnipresenti Down passando per le reminiscenze Layne Stayley-iane di “Inside the Woods” ).
Laddove, tuttavia, i Blind Marmots non convincono sul piano dell’originalità, si riprendono alla grande su quello dell’attitudine. La produzione è casereccia ma tutto sommato azzeccata e l’energia che i cinque veneti conferiscono ai riff, alle linee di basso e ai pattern di batteria si sente tutta, così come lo spirito cazzaro e autoironico – certamente tra i punti di forza dei Blind Marmots – non viene mai meno.
Tra i momenti più azzeccati vale certamente la pena segnalare la già citata “Despise”, oltre dieci minuti di stoner/sludge/doom impregnato di fango, fumo e fondi di bottiglia, così come l’assurda “Te Saco La Mierda”, nella quale a un testo volutamente volgare e fuori di testa fanno da contraltare riff e ritmiche davvero coinvolgenti, sulla – probabilmente inconsapevole – scia di quanto abitualmente proposto dai ¡Pendejo!.Il resto della tracklist si barcamena su livelli sufficienti discreti all’interno delle coordinate sonore precedentemente descritte, divertendo ma senza far saltare l’ascoltatore dalla sedia.
Al tirar delle somme un album autoprodotto più che discreto, in grado di regalare qualche momento di puro svago senza mai prendersi troppo sul serio.
Stefano Burini