Recensione: Blood Dynasty

Il 2025 è iniziato con il botto e sta regalando davvero tante emozioni. Il mese di marzo, in particolare, si sta rivelando un periodo infuocato. Dopo i Cradle of Filth, infatti, anche gli Arch Enemy sono pronti a tornare in pista e lo fanno pubblicando un nuovo album, il quarto con la talentuosa Alyssa White-Gluz al microfono. Con la formazione di Michael Ammott ci eravamo lasciati nel 2022, con l’entusiasmante “Deceivers”, che ci aveva regalato una band in forma smagliante. Ci ritroviamo oggi, circa tre anni dopo, con altissime aspettative, e dopo un lavoro del calibro di “Deceivers” non poteva essere altrimenti. La curiosità, l’adrenalina e la fame di musica hanno quindi proiettato i riflettori di appassioni e addetti ai lavori su “Blood Dynasty”, dodicesima fatica della formazione svedese. Stiamo d’altronde parlando di una compagine divenuta un riferimento per l’intera musica dura, inutile negarlo. Quando le formazioni che hanno fatto la storia del metallo pesante andranno in pensione, gli Arch Enemy sono uno dei nomi che prenderanno il loro posto nei grandi eventi. È quindi con tanta euforia che ci apprestiamo all’ascolto di “Blood Dynasty”.
L’album è il primo con il chitarrista Joey Concepcion, entrato nella famiglia Arch Enemy sul finire del 2023. Il musicista americano ha sostituito Jeff Loomis che, dopo dieci anni di onorato servizio, ha deciso di abbandonare la nave svedese e rilanciare i Nevermore. La sua avventura con gli Arch Enemy, per quanto bella, non poteva che finire così. Entrando nel dettaglio di “Blood Dynasty”, ci soffermiamo subito sulla produzione, che risulta pulita, potente ed esplosiva, come già avevamo apprezzato in “Deceivers”. Un aspetto che si rivela uno dei punti di forza del nuovo album, senza ombra di dubbio. Altro aspetto da sottolineare è la prestazione di singoli, davvero degna di nota. Le abilità strumentali degli Arch Enemy vengono valorizzate nella fase solistica, dove ogni musicista può esprimere tutto il proprio potenziale. Ma con i nomi coinvolti non poteva essere altrimenti.
Ma la musica? Adesso ci arriviamo, abbiate pazienza. “Blood Dynansty” si apre con un assalto frontale, una vera e propria frustata che risponde al nome di ‘Dream Stealer’. Già a partire dal primo ascolto, però, notiamo che qualcosa non torna nei quattro minuti e mezzo che caratterizzano la traccia. Il pezzo, infatti, dopo un inizio violentissimo, evolve in un’apertura melodica attraverso un passaggio forzato, senza un fill di raccordo. Lo sviluppo successivo è un classico breakdown, pensato per la dimensione live, per poi ripetere la sequenza. Ecco: per descrivere il nuovo “Blood Dynasty” potremmo utilizzare proprio quanto detto per ‘Dream Stealer’. L’aggettivo “forzato”, in particolare, descrive molti momenti dell’album. “Blood Dynasty”, infatti, è privo di quel piglio, quell’ispirazione, quell’attenzione negli arrangiamenti che tanto avevamo apprezzato in “Deceivers”. Ci troviamo al cospetto di un lavoro scontato in molti suoi passaggi, con alcune soluzioni che rendono poco scorrevole e trascinante l’ascolto.
Negli oltre quaranta minuti che caratterizzano “Blood Dynasty” ci ritroviamo a vivere alcuni capitoli che potremmo definire “riusciti a metà”. È questo il caso di ‘March of the Miscreants’, la cui strofa tende ad appesantire l’ascolto. Il ritornello, invece, per quanto easy listening, è pensato per la dimensione live e risulta trascinante, così come l’assolo. È su questa base poco stabile che gli Arch Enemy provano a edificare “Blood Dynasty”. Il risultato, come potete ben immaginare, è abbastanza altalenante. E così, proseguendo con il minutaggio, dopo due pezzi alquanto scontati, tenuti in piedi da un’ottima fase solistica, il disco regala le prime emozioni forti con la title track. La canzone incarna la qualità respirata in “Deceivers” e risulta davvero ben strutturata e coinvolgente. È giusto una fiammata, però, dato che la successiva ‘Piper Tiger’ ripresenta un incedere incostante. Se il ritornello, l’assolo e delle azzeccate aperture melodiche sanno essere davvero coinvolgenti, la strofa si rivela invece alquanto forzata. Incontriamo infatti una struttura dal classico taglio heavy metal, abbinata a un cantato growl che c’entra molto poco. In questo frangente poteva forse essere azzardato un passaggio in pulito. Soprattutto se consideriamo che il cantato in clean voice aveva dato ottimi risultati nel precedente “Deceivers”, così come li dona a ‘Illuminate the Path’, secondo brano di “Blood Dynasty”. E come descrivere la semi-ballad ‘Vibre Libre’, cover dei rocker francesi Blaspheme? Come l’ennesima traccia dalle due anime, che riesce a salire di giri e risultare davvero ben strutturata ed entusiasmante solamente dall’assolo in poi. Una canzone che, in compenso, ci regala uno Sharlee D’Angelo semplicemente stellare. L’album si conclude con ‘The Pendulum’, canzone easy listening ma che dal vivo saprà infuocare le folle, e ‘Liars & Thieves’, in cui compaiono nuovamente quei momenti poco felici che hanno fin qui caratterizzato “Blood Dynasty”. Il riff iniziale, che si ripete nel corso della canzone, fa davvero allargare le braccia e alzare lo sguardo al cielo.
Cosa dire di “Blood Dynasty”, quindi? Che ci aspettavamo qualcosina in più. Il dodicesimo lavoro degli Arch Enemy può essere definito un disco molto simile alle montagne russe. Durante l’ascolto, infatti, ci troviamo a vivere una continua alternanza di passaggi riusciti e altri che ne appesantiscono l’ascolto. Da sottolineare, poi, come il disco regali il suo lato migliore, quello più accattivante e coinvolgente, quando gli Arch Enemy decidono di puntare su velocità e melodia – la miscela vincente di “Deceivers”, insomma. Gli aspetti meno positivi di “Blood Dynasty” escono invece quando la band cerca di riproporre quell’aggressività, quell’assalto frontale che aveva caratterizzato i primi anni di carriera. Sono proprio questi i “passaggi forzati” che più volte abbiamo citato in precedenza, quelli a risultare meno ispirati e sentiti. Un vero peccato, soprattutto se consideriamo che “Deceivers” aveva praticamente spianato la strada e indicato la rotta da seguire. E come accadeva a scuola, quando i più bravi venivano bacchettati perché avevano studiato poco o non si erano impegnati come di consueto, anche noi ci sentiamo di riprendere gli Arch Enemy. La speranza è di rivederli – o riascoltarli – presto sui livelli di competenza. Con “Blood Dynasty”, intanto, vengono rimandati a settembre.
Marco Donè