Recensione: Blood Fire Death

Di Daniele Balestrieri - 30 Giugno 2003 - 0:00
Blood Fire Death
Band: Bathory
Etichetta:
Genere:
Anno: 1988
Nazione:
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98

Mostruosa summa dell’arte inimmaginabile di Quorthon, Blood Fire Death rappresenta in un maledetto, piccolo CD tutta la monumentale montagna di musica che vive, si rannicchia e muore sotto l’ombra scura, torturata di un lavoro di visionaria bellezza e di crudissima malinconia; un punto di svolta in cui la storia della musica, del black, del viking e dell’epic metal si piega a ginocchio, con un rumore sordo di spaccatura che riecheggia come l’esplosione di una montagna, come l’urlo di morte dell’ultimo dio dell’epica nordica. È un lavoro superbo, incredibile, in cui l’arte di un piccolo uomo nato in un garage con una drum machine e un vecchio amplificatore esce allo scoperto, spiega le proprie ali demoniache e turbina in cielo ricoprendo ciclicamente con la propria ombra tutto ciò che è stato. Blood Fire Death con un tocco della mano sinistra distrugge il black metal, e con la mano destra crea il primissimo disco Viking Metal della storia della musica. Impossibile davvero rimanere insensibili di fronte a tanta magnificenza, a tanto epico, intelligente fervore. Era il 1988, e Quorthon si era stancato di celebrare la propria ribellione alla chiesa parlando di Satana, di caproni, di croci rovesciate. Insomma, di stilemi cattolici. No, Quorthon decide di voltare la testa verso il proprio passato, e decide di umiliare la chiesa nel modo più onorevole possibile, ricacciando dall’oscurità della storia le proprie radici vichinghe, nordiche, di affrontare la “croce bianca” con lo sguardo fiero degli eserciti vichinghi, degli dei nordici, in un furore che attinge a piene mani dagli stilemi black impreziosendoli minuto dopo minuto di sfoghi epici, corali, densi di significato e di passione. Una distruzione senza respiro, senza toccare la parte buia della chiesa, perché schifato, inorridito, piuttosto guardandola negli occhi finché non abbassa lo sguardo e non latra come un cane bastonato.

La firma indelebile di Quorthon inizia con l’atmosferica intro, Oden’s ride over Nordland. La grande pattuglia di Odino che sotto una tastiera maligna galoppa incessante sulle terre del nord a cavallo del suo Sleipnir, sguardo fiero verso il mare, mentre piano piano emerge una chitarra solida, pomposa, che si mischia al rumore degli zoccoli e introduce la violenta “A fine day to die“, che naturalmente pesca a mani gonfie dal retaggio metal oscuro e greve dei primi tre album senza alcun filtro tra la corrente elettrica che dà vita agli strumenti fino alle orecchie dell’ascoltatore. E già inizia la lenta frattura della storia del metallo scandinavo, frattura che comincia a esplodere in “The Golden Walls of Heaven“, che trae la propria frettolosa mischia musicale dagli uragani metal dei primi Slayer e la rende propria, evolvendola ora in maniera ancora più palesemente heavy come in Pace ‘til Death, ora in maniera quasi doom come in Holocaust, che in maniera drammaticamente doom rievoca la preparazione alla fine del mondo di esseri superbi, immaginari, battezzati nel fuoco e nel ghiaccio, che fuoriescono dal ventre della terra come le sue chitarre pompose, velocissime, dal basso violento, dalla voce urlata, maledetta, retaggio di “The Return…” e “Bathory“. Man mano che il disco procede potrete sentire la storia del black cambiare forma e assumere la grande forma del Viking, mentre Quorthon urla senza alcuna percezione melodica “For all Those who Died“, in cui la primitiva violenza del cantato è solamente tenuta a bada da un giro di chitarra orecchiabile e spinto, che vorrebbe quasi coprire la vergogna del testo implicato dal cantato stesso, che denuncia le atrocità rigurgitanti dell’invasione e assorbimento cristiani nelle terre del nord, pure come la neve, e ora macchiate del bianco delle tonache, dal rosso del sangue e dal nero delle menzogne. Il CD prosegue lanciato senza respiro, finché il giorno dell’ira non introduce la monumentale, maestosa, title track, che rappresenta l’esplosione, il momento in cui la famosa frattura del metal non giunge a compimento, spezzandosi di netto e introducendo una chitarra quasi acustica, e un coro spettrale, che rapisce l’ascoltatore ormai annichilito da tanto fasto e tanta potenza. Anche Quorthon sembra essersi accorto di aver cambiato qualcosa con questi cori, e lascia girare la bacchetta sul piatto della propria batteria, creando in un suono il Viking Metal. Oberato da una tale responsabilità, scarica sul proprio mezzo tutto il suo genio creativo, iniziando a modulare la voce in quella carica di emozioni indicibili che creeranno il capolavoro Hammerheart e tutta la sua storia successiva. Blood Fire Death rappresenta l’apice del disco, una delle mie canzoni preferite di sempre della storia della musica, una voce “più forte di ogni cosa”, le chitarre in distorsione e in saturazione, più grandi dello spettro del mixer, incontrollabili, seguono i cori metallici e le vibrazioni del basso, che a ogni colpo sembra plasmare terre, pianeti e gli spiriti di ciò che una volta era, e che ora non è più. Come non riportare la parte più glaciale del testo:

“The moment is chosen
The Battlefield is bare
Take now thy stand people
The true ones don’t fear

Now choose your weapons
And fall in the line
Choose well your colours
And follow the sign

Blood for all tears shed
And Fire for hate
Death for what shall become
All false ones fate

The standard bearer is chosen
And the day has just begun
Shadows growing long by the rising
Of the awakening sun”

Chi avrà tanta fortuna da possedere il disco in questione, che lo ascolti nuovamente, prestando attenzione alle grandi parole di un uomo che ha rappresentato in quattro quartine la summa del metal, la summa con cui si può definire “truemetal”. La battaglia ruggisce, è il momento di scegliere il lato in cui stare. Seguite i colori, seguite lo stendardo, e il giorno è solo iniziato, il giorno in cui le ombre si allungano alla vista del sole che sorge.

Si possono spendere fiumi, mari, oceani di parole sui significati di questo disco, significati anche politici come molti sostengono (“Fists raise like hammers / To a clear sunny sky / Bonds and chains fallen to the ground”), significati religiosi, etici, morali, scaturiti dalla mente di un singolo uomo. Ma come amo dire per ogni disco di Quorthon, scoprire da soli certe cose lascia una soddisfazione impareggiabile, per cui è inutile scrivere quanto si è dibattuto in sedici anni su questo CD. Onoro semplicemente la mente che ha preso il testo di “Dies Irae“, l’ha sbattuto sul terreno insanguinato, e ha iniziato ogni singola riga della canzone con una lettera ben precisa, fino a formare la frase “CHRIST THE BASTARD SON OF HEAVEN”, lo stesso visionario che preso in un momento di grande ispirazione violenta ha voluto compiere lo stesso trattamento con “The Golden Walls of Heaven“, in cui si legge a ripetizione la parola “SATAN, SATAN, SATAN, SATAN, SATAN, SATAN, SATAN, SATAN!”. Certo non è un album scritto in una notte, e conoscendo Quorthon non mi stupirebbe niente. Una cosa è certa, e non riesco davvero a evitare di dirlo: questo disco ha cambiato la storia, ha demolito un genere che si dice creato da Bathory e ne ha costruito un altro a cui ora si affidano decine di band: non posso che essere entusiasta di un tale lavoro e di un tale riconoscimento della musica. Veniamo ai fatti più concreti. A molti non piace il cantato di Quorthon, qualcuno si diverte anche a dire che non canta bene (!), qualcuno si diverte a dire che registra con il walkman, che la sua musica manca di tono, che è sgraziata, che non vale niente a livello tecnico. Che questo qualcuno continui a parlare per eresie: ciò che dice è vero. Ma quando nel 1988 nasce un vinile che brilla di luce propria per l’anima che è stata pressata, schiacciata e liberata al suo interno… ogni altra discussione è futile. Se non vi piacciono i CD che tecnicamente rispondono ai canoni sopra citati non lo comprate, non fa per voi. Per gli altri, per chi legge tra le righe degli spartiti e vede tremare la Storia con tutta la sua passione… la stessa passione che Per Nicolai Arbo infuse nella “battaglia di Asgaard” della copertina… ho un solo consiglio: fate vostra questa pietra miliare.

Daniele “Fenrir” Balestrieri

TRACKLIST:

  1. Oden’s Ride Over Nordland
  2. A Fine Day To Die
  3. The Golden Walls Of Heaven
  4. Pace ‘till Death
  5. Holocaust
  6. For All Those Who Died
  7. Dies Irae
  8. Blood Fire Death
  9. “unknown”

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