Recensione: Blood Inside
Dove sono finiti gli Ulver? Questa è la domanda che il medio ascoltatore di black metal si è posto per diversi anni, quella domanda la cui risposta giace in un terreno molto lontano da quello calcato ai tempi della cosiddetta “trilogia black”, periodo in cui è stata messa a nudo l’anima più grezza e ruvida del black metal, la cui essenza non può non sfuggire alla combinazione di alcuni tra gli artisti più talentuosi della scena norvegese. In realtà con il 1996 dovremmo chiudere il sipario, e considerare l’epopea degli Ulver metallici conclusa – eppure nei truci madrigali della notte i lupi hanno osservato il mondo che li circondava finché non hanno spezzato i vincoli della musica e non hanno abbracciato, nel 1998, l’inferno e il paradiso in uno stesso istante. Con Themes From William Blake’s The Marriage Of Heaven & Hell – gli Ulver hanno cambiato volto e si sono spinti verso l’intimo più avanguardistico della musica, consci della grande ricchezza maturata suonando classici dell’atmosfera nordica come Kveldssanger e monumenti all’estremo black come Bergtatt e Nattens Madrigal. È difficile delineare la loro carriera da Marriage in poi – il loro estro si è concretizzato in una serie di lavori assimilabili a veri e propri rigurgiti creativi, come la psicadelica trilogia di Silence Teaches You How To Sing, visionario EP monotraccia, Silencing The Singing e il collettivo Teachings In Silence, che raccoglie e digerisce in un certo qual modo i due EP che lo precedono, terminando un progetto sintetico-progressivo strettamente voluto da Garm e celebrato degnamente da una delle critiche più vaste ed eterogenee del mondo musicale. Delle radici black del primo periodo non rimane più nulla a livello musicale: gli Ulver ‘spaziali’ trascendono ogni tipo di canonizzazione e si dirigono laddove pochi altri artisti hanno osato – Vintersorg, Borknagar, Mortiis, Fenriz – sacrificando di anno in anno tutti gli strumenti che li legavano alla terraferma in favore dell’ecletticità più totale. La fortunata serie di esperimenti degli anni passati ha visto la propria consacrazione nella scrittura della colonna sonora di uno dei film più importanti del cinema moderno norvegese, Svidd Neger – amara parodia di un orfano negro che crede di essere un Sàmi quasi divino per via del colore della sua pelle, così stupefacente in un luogo dove non è mai arrivata la civiltà propriamente intesa come tale. Svidd Neger, come “A Quick Fix of Melancholy“, rappresenta la perfetta sintesi tra monocorde e esplosivo, tra intimista e monumentale e tra sgraziato ed elitario che la band abbia mai generato. Senza compromessi, senza spiegazioni, i lupi costruiscono cattedrali nel deserto fatte di atmosfere tenui, solari, accordate da quartetti di violini vibranti come in un caffé di Vienna e esplosioni sintetiche laceranti come una valanga inarrestabile. L’ascolto fallisce nel riconoscere anche lo strumento più semplice: batterie, chitarre e bassi sono nascosti nel sottoscala mentre i pianoforti prendono il sopravvento, e la testatissima voce di Garm fluisce da ogni rigo del pentagramma. Nasce così l’eclettismo del pluridecorato Perdition City, ultimo full length prima di questo Blood Inside, fatica costata cinque anni di attesa, due anni di lavoro e un tempo imprecisato di preparazione psicologica.
La croce rossa campeggia in un mare di bianco, simboleggiando il marchio universale d’emergenza che domina una copertina impreziosita da un intreccio di decorazioni tanto delicate quanto inquietanti. Ed è proprio l’emergenza della vita il vero cuore pulsante dell’ultima fatica dei lupi; quel “sangue dentro” che inizia a scorrere nel mistero della nascita e termina nel mistero della morte, evento avvilito da una nervosa telefonata infinita e dall’operatore – figura dominante dell’ultima traccia – che all’insistere del segnale telefonico chiede di attendere in linea, lasciando spegnere la vita – e l’album – in un tetro silenzio d’ospedale.
Una visione medica, asettica, decadente della vita, palesata dalle foto session preparate per l’album che vedono il bizzarro trio in sala operatoria in un primo momento, e nel cimitero comunale di Oslo nel momento successivo. Un’intera vita nello spazio di nove tracce che non desteranno sorpresa nei seguaci immarcescibili degli Ulver del nuovo millennio. Tutto è movimento in Blood Inside, nulla è uguale a sé stesso. Le tracce spezzano il significato canonico delle canzoni e si abbandonano in un turbolento aggregarsi e disgregarsi di violenza e delicatezza, di lunghi momenti in ballata di violino e pianoforte e brevi pause, continuamente sormontante dall’elettricità che scorre in tutti i sintetizzatori, manipolati ad arte come solo gli Ulver di Perdition City hanno trasmesso al mondo. Tutto è imprevedibile, come la vita e come i continui riferimenti a Dio, pulsante in canzoni come “Christmas”, “For the Love of God” e “It is not Sound”, e tutto si agita nella monumentalità megalomane di Garm che è riuscito a creare uno dei prodotti più rigidamente elitari della storia della musica. Blood Inside fluttua a un’altezza imprecisata sopra la terra, la sua musica scorre di fino, cristallina, perfetta, si interrompe, riprende, torna indietro e schizza in avanti come mossa da un disegno divino che non ci è dato conoscere.
La sensazione di essere piccoli e fragili di fronte a Blood Inside è grande e a volte temibile; ricorda a tratti quella disperazione sconfinata di Caravans e Transmissions from Empire Algol dei Neptune Towers, nichilista progetto electro-ambient di Fenriz che aveva come obbligo d’acquisto la promessa morale di ascoltarlo in solitudine assoluta, giacché solo nella solitudine le Torri sarebbero entrate in risonanza e sarebbero apparse sulla superficie del pianeta ghiacciato. Tutto questo elitarismo esasperato è forse l’essenza ultima del Black Metal, e in questo senso Blood Inside può essere considerato uno dei dischi più Black Metal degli Ulver.
Inutile passare in rassegna traccia dopo traccia, come in un supermercato della musica – ogni canzone fa storia a sé stante, tra l’apocalitticità di “Dressed in Black” e i cori eterei di “For the Love of God“, pregiato di una chitarra elettrica malata e sfregiata da continue cavalcate sintetiche; tra l’industriale imprecisione di “Christmas” e l’oppressiva e agghiacciante “Blinded by Blood“, un retaggio moderno di Svidd Neger; tra la marziale “It Is Not Sound“, (s)fregiata da un finale asfissiante toccato negli ultimi secondi dalla penna di Bach e la psicadelica “In The Red“, fino a precipitare nel drammatico più maestoso delle ultime “In Your Call” e “Operator“, malati cuori pulsanti di un Blood Inside che termina nell’infermità musicale, nella malattia orchestrale, in cori disperati e attimi concitati, come in quei film in cui anche la speranza muore di spasimi a un passo dai titoli di coda.
Distorto e tormentato in fase di editing, Blood Inside si manifesta come una creatura tentacolare e multiforme, ricca di ecletticità e genio, che sconfigge ogni tipo di classificazione e valutazione. Una specie di tributo finale a quegli Ulver spariti, ci si chiede sempre dove, e non spesso si ha la risposta. Blood Inside è l’ultimo figlio di un Garm geniale che continua a trascinare l’essenza elitaria del black metal in uno dei contesti più spiccatamente evolutivi, avanguardisti e progressivi della musica. Pubblicato per l’élite in una pregevole edizione limitata di velluto rosso-sangue, al cui interno giace una fodera di cartone e un libretto di plastica, Blood Inside è un disco dichiaratamente per pochi. Un capolavoro per alcuni, un giaciglio di rovi per altri, un frutto del tradimento per altri ancora – giudizi squilibrati che riflettono l’anima di questi Ulver del 2005 – megalomani caposchiera dell’avanguardia progressista norvegese.
TRACKLIST:
1.Dressed In Black
2.For The Love Of God
3.Christmas
4.Blinded By Blood
5.It Is Not Sound
6.Truth, The
7.In The Red
8.Your Call
9.Operator