Recensione: Blood On Blood
Il capitano Rock N’ Rolf, tornato in pista con il nuovo Blood On Blood dello scorso ottobre, è una figura incredibile. Quarant’anni di militanza nella scena heavy metal combattuti a fil di spada. Diciassette album in studio con i suoi Running Wild (coi quali dal 1976 ricopre il doppio ruolo di cantante e chitarrista). Di cui almeno cinque entrati di prepotenza nella leggenda, infiniti cambi di line up e una perseveranza di ferro, ai confini della testardaggine. L’inconfondibile impronta musicale della sua creatura, un heavy metal ottantiano e diretto condito da tematiche storico/piratesche, è rimasta pressoché immutata nell’arco degli ultimi quattro decenni.
Una nave salpata col vento in poppa alla fine degli anni settanta, che ha trovato le acque migliori nei primi anni Novanta arenandosi purtroppo nella inevitabile bonaccia dei primi anni duemila. Si perché dal discusso Victory (2000) passando per il terribile Rogues en Vogue (2005), il pessimo Shadowmaker (2012) e il debole Rapid Foray (2016). La stella polare che guidava il possente veliero del nostro Rock N’ Rolf sembrava essersi definitivamente eclissata. Complice una formula incapace di attecchire se non sui fan più accaniti? Molto probabilmente. Innegabile anche un deciso esaurimento della vena creativa, sia a livello musicale sia a livello di tematiche. Ma dopo anni di assenza e silenzi una prua familiare torna a stagliarsi all’orizzonte.
Un nuovo album è in uscita e Rock N’ Rolf non esita a definirlo “il disco più variegato che abbia mai scritto“, nonché “il miglior album dei Running Wild“. Affermazioni molto forti: è solo marketing? Fortunatamente no. Il riposo forzato durante gli ultimi anni, fra lockdown e restrizioni, ha dato tempo al capitano di Amburgo di confezionare un disco non eccelso, ma che rievoca i fasti di album storici come Black Hand Inn o Blazon Stone.
La title-track di Blood On Blood ne è un ottimo esempio. Allo stesso modo l’incalzante Say your prayers, la martellante The Shellback o la maideniana Diamonds and Pearls sono delle valide prove d’autore che ci riportano in territori molto classic heavy. Crossing the blades è un brano molto ricco e ben strutturato, probabilmente il migliore del lotto insieme alla maestosa e conclusiva The Iron Times (1618-1648).
E’ proprio quest’ultimo brano che da solo vale l’ascolto del disco, una potente cavalcata dall’incedere solenne che porta l’ascoltatore nell’Europa dilaniata dalla Guerra dei Trent’Anni. Dieci minuti di ascolto che permettono a chiunque si avvicini per la prima volta al lavoro del pirata di Amburgo di capire la qualità del suo songwriting. Una vera perla, ispirata e ben cesellata; un lavoro d’altri tempi, che mancava nel catalogo Running Wild da più di un decennio.
Ed è un brano come questo che può ambire al rappresentare al meglio la carriera del pirata. Un tuffo in sonorità sontuose dove il didatta Rolf Kasparek sale in cattedra e consegna alla posterità una lezione esemplare di heavy metal classico. Poi si sa, la stessa tematica, sviscerata, scomposta e rimessa insieme per quattro decadi consecutive alla lunga può o stancare o andare ad esaurirsi. Ed ecco che le parole di Rolf Kasparek riecheggiano nella mente dell’ascoltatore. Il disco più variegato che io abbia mai scritto.
Questa varietà è composta da una serie di brani che definire “inusuali” (ovviamente in riferimento alla produzione del pirata di Amburgo) è dire poco.
In primis abbiamo la corale Wild and free, brano party rock piacevole al primo ascolto, ma che risulta stucchevole sul lungo periodo. Complice un riff che sa di già sentito e molto ostinato. Una ballad fa capolino fra le rapide bordate del veliero, si tratta di One night, one day. Brano piuttosto spento che non lascia impronte di rilievo. Lo stesso Rolf sembra poco a suo agio nell’intonare quello che risulta essere il brano meno incisivo del disco.
Ma è con Wild wild nights che le parole di Rock N’ Rolf riportate qui sopra acquistano un peso decisamente importante. Party rock anni ’80, cadenzato e tappezzato di cliché. Sorprendentemente ascoltabile, esuberante, piacevole, quasi glam, che maschera il sapore di già sentito con il gusto dolceamaro della nostalgia.
Forte di una produzione finalmente di nuovo degna di questo nome, il veliero del capitano esce dalla bonaccia e si prepara ad affrontare a cannonate i festival del 2022. E laddove i colleghi (e quasi coetanei) dei Judas Priest, Accept e Saxon hanno inasprito i toni e abbracciato un heavy metal di stampo moderno per solleticare le orecchie dei più giovani, il nostro pirata e la sua ciurma sono rimasti fedeli alla linea. Con Blood On Blood i Running Wild hanno dimostrato che la perseveranza ai limiti della testardaggine, alla lunga, paga.