Recensione: Blood Sample
Strana band i Waltari. In vent’anni tondi di carriera hanno cambiato pelle chissà quante volte, esplorando i territori musicali più disparati, alla ricerca di alchimie rischiose e ai più proibite. Ma non tutti i giorni genio e follia possono procedere di pari passo, e non sempre gli intrepidi esperimenti della band sono stati coronati dallo stesso successo di quell’ardimentoso connubio di metal estremo e musica classica che fu “Yeah! Yeah! Die! Die! Death Metal Symphony in Deep C”. Il pensiero va a quegli improbabili tentativi di incastrare heavy metal e musica techno intrapresi nei primi anni della loro carriera, efficaci in patria dal punto di vista commerciale ma tremendi sotto il profilo artistico, o alle più recenti contaminazioni a base di progressive, pop e rock alternativo.
Dal canto suo, “Blood Sample” sintetizza in settantanove minuti un po’ tutte le maschere che i Waltari hanno cambiato in questi anni, nel bene ma, dispiace un po’ dirlo, anche e soprattutto nel male.
Peccato, perché “Helsinki” sembrava aprire le danze con relativo equilibrio, senza troppo insistere sul fattore shock. Heavy metal ed elettronica cercavano una via di convivenza più o meno pacifica e un refrain di grande immediatezza si impegnava a mettere un po’ tutti d’accordo. Poi, sul finire della canzone, il pasticcio: un fiume in piena di screaming vocals, seguito da un semi-parlato rap e da un coro arioso e avvolgente. Troppe idee e tutte in una volta: così non va. Ma le cose non sono destinate a migliorare.
Preceduta da un mediocre terzetto di brani caratterizzati da una forte impronta punk rock, “New York” prova a premere l’acceleratore su binari heavy/speed: la scelta potrebbe rivelarsi azzeccata, se non fosse per l’approccio vocale del tutto inadeguato, con un pulito inespressivo che bruscamente si rifugia nella violenza di uno screaming poco incisivo. Il disastro arriva però con la seguente “I’m In Pain”, un intruglio nauseabondo che mischia tutti i cliché dell’hip-hop al nu metal di Linkin Park e soci: siamo ben oltre i confini dell’ascoltabile. È l’inizio del momento peggiore dell’album. “All Roads Will Lead To Rome” si rituffa a capicollo nel punk rock, nauseando per la ripetitività di un ritornello che vanifica gli sforzi di un arrangiamento invero brillante. Toccato il fondo, la band comincia a scavare: “Digging Inside” – titolo profetico – prova a ricucire le innumerevoli falle con brandelli di noise ed elettronica, registrando un rovinoso fallimento su tutta la linea. Secondo la tracklist è la fine della prima parte, quasi frustrante nella cocciutaggine con cui tenta di abbinare sperimentazione e orecchiabilità, ma le cose non sono destinate a migliorare più di tanto nella seconda.
Per non cadere nella ripetitività, proviamo stavolta a scegliere il meglio, anzi, il meno peggio. La componente heavy si irrobustisce, e qualcosa di decente accenna a venire fuori. Accenna: perché la semi-ballad “Shades to Grace”, che pure altrove difficilmente avrebbe potuto riscuotere grandi consensi, regala una volta tanto un assolo piacevole; perché se non fosse per le tremende linee vocali rappate “Pigeons” avrebbe le carte in regola per stupire, con la sua fitta trama di flamenco e musica araba; perché “Wide Awake”, col suo estemporaneo solo di fisarmonica, è quasi una bella canzone. Peccato però che pezzi come “Back to the Audio”, “Exterminator Warheads” e “Julia” bastino e avanzino per rovesciare la bilancia e tutti i suoi piatti nel fosco baratro del cattivo gusto.
Che dire, qualcuno li definirà geniali, ma la genialità, a parere del sottoscritto, sta altrove. Qui, è innegabile, si trovano esperienza, eclettismo, fantasia. Ma del genio, o anche solo di belle canzoni, non c’è traccia. È dunque con rammarico che il nuovo album dei Waltari verrà riposto in fondo all’ombroso scaffale a pié del mobile, quello che tocca ai fallimenti e alle delusioni. “Liberate la vostra mente dai pregiudizi musicali!” urla a gran voce il singer Kärtsy Hatakka. Per adesso, chi scrive cercherà soltanto di cavarsi dalla testa i fastidiosi ritornelli di “Blood Sample” che, oltre a quelli già elencati, hanno anche il seccante difetto di entrare – troppo – rapidamente in testa e conficcare in profondita le proprie radici bitorzolute.
Tracklist:
01. Helsinki
02. Not enough
03. Too much emptiness
04. Never
05. New York
06. I´m in pain
07. All roads will lead to Rome
08. Digging inside
09. Fly into the light
10. Shades to grace
11. Aching eyes
12. Back to the audio
13. Pigeons
14. Exterminator warheads
15. Darling boy
16. Wide awake
17. Julia