Recensione: Bloodline
Bloodline è il sesto album nella carriera della metal band tedesca Perzonal War. Nato più di dieci anni fa, il gruppo, dopo vari orientamenti musicali ricchi di speed metal, thrash, post-thrash, sembra aver trovato una certa spontaneità nella commistione tra il thrash old-style e il death metal svedese. A parziale sostituzione dei comparti ritmici quadrati, veloci e carichi di groove che avevano contraddistinto gran parte della discografia passata, i quattro sembrano ben disposti a strizzare l’occhio all’apporto catchy delle melodie aggressive che Soilwork e In Flames hanno nel tempo sapientemente mescolato al death metal scandinavo. Che questa non sia una novità rivoluzionaria è noto a tutti. Però è interessante constatare quanto la convivenza di due generi, più o meno primitivi nella loro veracità, possa coesistere senza snaturare il fascino primigenio di entrambi.
La band è stata abile a proporre l’uno e l’altro con equilibrata alternanza, adottando tutti gli accorgimenti del caso per mantenerli incontaminati, peccando solamente di poca linearità in sede compositiva. Spesso l’evidenza del passaggio da un genere all’altro ha un retrogusto acido che, sebbene compensato dai ritornelli coinvolgenti, alla fine lascia comunque un po’ d’amaro in bocca. I settori thrash, prevalenti nella costruzione delle ritmiche, ricalcano fedelmente il caro e datato stile europeo di inizio anni ’90, mentre i coinvolgenti e canticchiabili ritornelli costituiscono, nella loro riconoscibile aggressività melodic death-oriented, il classico incalzante inno alla scena svedese. Questo atteggiamento è riscontrabile in tutti gli undici brani a conferma della personalità e delle idee ben definite che hanno partorito questo Bloodline. La parte melodica risulta infine la componente più significativa e che si fa ricordare molto più delle sezioni ritmiche che, sebbene pregiate, vengono troppo spesso soffocate dalla marcata melodia degli stacchi.
Non sono bastati quindi gli apporti artistici di musicisti del calibro di Wiley Arnett (Sacred Reich), Schmier (Destruction), Manni Schmidt (ex-Rage, Grave Digger), Victor Smolski (Mind Odyssey, Rage) e Gus Chambers (Grip Inc.) a dare quel ‘quid’ in più a una composizione nel complesso più che sufficiente per idee, ma ancora un po’ sterile per capacità di coesione tra le diverse culture musicali. La band ha piglio maturo in quanto sembra aver compreso il suo percorso, in questo disco leggibile a caratteri cubitali. Il processo produttivo ha avuto il grande pregio di riuscire a evidenziare ogni idea, a dar respiro a ogni break, a legare tutti i punti forti di ogni espressività strumentale. L’unica pecca da annotare è la chitarra solista, strumento sistematicamente messo in sordina durante l’esecuzione dei soli, peraltro fulminei e marcatamente thrash come tradizione vuole.
A mio parere quindi manca ancora un piccolo passo per tagliare il traguardo che porterà a realizzare un risultato da annoverare negli anni a venire. Una maggior cura nei passaggi tra i due stili e una bella rivisitazione delle parti soliste potrebbero essere due incertezze da approfondire con la prossima release. Il resto è piacevole, interessante e valido, più che sufficiente a soddisfare un ampio pubblico, non solo quello legato alla tradizione thrash europea, ma anche chi è cresciuto a pane e swedish death metal.
Rimaniamo in attesa fiduciosi.
Nicola Furlan
Tracklist:
01 Evolution
02 Utopia (feat. Victor Smolski)
03 All Sides Black
04 This Dead Meaning
05 Two Borders (feat. Schmier, Wiley Arnett)
06 Shred (feat. Gus Chambers, Manni Schmidt)
07 Infected Choice
08 Dying Face
09 New Confidence
10 More Than A Day
11 The Same Blood