Recensione: Bloodstone & Diamonds
“…Fighting to heaven and earth
Saving your children from their pain and hurt
Bloodstone & Diamonds nothing can break the strenght of these stones…”
Le sfumature dell’animo umano sono sfuggenti e mescolano l’odio in egual misura con l’amore. Sembra che i Machine Head lo abbiano sempre saputo e, preferendo trattare la parte più feroce ed impietosa del mondo, hanno fatto tesoro delle proprie esperienze, per generare un thrash metal evoluto. Insomma, un mostro (o drago apocalittico) che è stato sempre vorace di spunti e commistioni e che non è rimasto immobile a subire passivamente il proprio passato.
Su queste basi si fonda il nuovo “Bloodstone & Diamonds”, che già dal titolo suggerisce l’idea di un songwriting dai mille volti, con tutti gli “effetti collaterali” del caso. Non è, dunque, cosa da tutti i giorni varcare la soglia di un album dei Machine Head e scoprire l’intro sinfonico di “Now We Die”: in pochi attimi capiamo che questo disco sa osare ed andare ben oltre gli stereotipi arrugginiti, evitando di sprofondare nella palude del riciclo. Un “azzardo” che raggiunge l’apice nel ritornello dalle tinte melodiche, che è una carezza a confronto dell’ossessivo picchiare del drumming.
Aperture inattese anche per lo scorcio acustico, con main vox pulito dall’intensità estraniante. Un passaggio che avviene indolore dato che Flynn trasfigura con totale nonchalance la voce, passando da un’intonazione levigata al gutturale cinismo del thrash metal. Tuttavia, nessuna preoccupazione perchè le percosse inferte da Mr. Robb, con la sua verve da pressa umana, ricordano anche ai più smemorati con chi avete a che fare. Questo a dimostrazione di come i Machine Head rimangano fautori di un suono infrangibile, resistente alle avversità quanto un diamante e portentoso come un amuleto sovrannaturale (il bloodstone).
Per ribadire il concetto è sufficiente l’impeto distruttivo di “Killers & Kings”, che ricucisce all’istante lo strappo con il passato. Non c’è pietà nel campo di battaglia dove i Nostri giocano la propria sanguinosa partita: tempi quadrati per una sessione ritmica fragorosa, compatta quanto una falange armata in assetto da guerra.
A questo punto la reazione innescata è irreversibile: i fantasmi del thrash infestano “Ghosts Will Haunt My Bones”, tormentata da influenze musicali come un’anima prava dai propri peccati. Questo non è un semplice combo rissoso, che si formalizza in un contesto definito, ma da libero sfogo al proprio background incastrando passaggi folli e allucinanti, stritolati dalla voce di Robb, e limpidi momenti di debolezza mediati da sofferenti armonie.
Nelle trame del disco c’è sempre spazio per ricordare eventi dalla triste fama, fatti di sangue che imbrattano il buio di “Night Of Long Knives”. E il collettivo sonoro non fa fatica a trasportarci in quella notte plumbea, mentre si avverte sulle note del basso e batteria gli istanti di dolore dettati dalla follia umana. Sembra di assistere alla tragica scena, mentre l’efferato gesto si compie davanti ai nostri occhi: i passi rapidi della depravazione rieccheggiano nella notte come la chitarra spezzata di Flynn. Culminante il coro che si abbatte come un uragano, da dove baluginano ancora lampi di melodia.
Ci si accorge che la componente più malata e criptica di “The Blackening” ricorre spesso in questo album, il quale non per nulla si nutre di miti e segreti dell’alchimia e di ogni debolezza e storpiatura umana. Ma qui l’evoluzione del pensiero non ha di certo connotazioni illuministe ma è densa di spaventose ombre di morte, cupe immagini proiettate dall’arpeggio di “Sail Into The Black”. L’idea è quella di condurci lungo una distesa ultraterrena, nera e vischiosa come sangue rappreso, dove il main vox va alla deriva in un oceano di lacrime. Il drumming flagella il lento fluire dei ricordi mentre il refrain conserva un bagliore di epica grazia. Da questo alterco, nasce una sinergia che serve solo a ricordare come la dualità è il fulcro di “Bloodstone & Diamonds”, segnando l’ennesimo capitolo della concezione machinediana del vivere umano.
Un vivere difficile, che sembra condannato ad un destino di morte riflesso in “Eyes Of The Dead”, dove il ritornello si spacca in due, diviso tra un vociare lacerante e il main vox nitido ed emotivo. Intricati cambi di tempo si susseguono tortuosi nella song, quasi a mimare un labirinto dove all’uomo è negata la via per la salvezza.
Il background musicale si sposta, riesumando e attualizzando sonorità del passato per portare l’oscurità in musica: se vi state, dunque, chiedendo come suonerebbero i Black Sabbath anabolizzati con il thrash metal, troverete la risposta nella morsa sulfurea di “Beneath The Silt”. Il livello compositivo è sempre di caratura superiore e i nostri neri beniamini non sanno solo infierire ma anche intrattenerci con la giusta dose di trasporto.
L’atmosfera sembra ingentilirsi e gli archi fanno scendere lacrime di sangue sull’inno “America, The Beautiful”, intro di “In Comes The Flood”. Pochi ripensamenti e la voce distorta di Robb riversa un attacco all’ordine precostituito, smuovendo il fango di bugie che sporca la coscienza umana, facendo riaprire le piaghe della società americana. A tanta violenza si contrappone una bellezza a dir poco drammatica che si agita nei vibrati, che confida e affida al guitar solo una preghiera commovente, fatta di puro istinto melodico sotto l’acuminata corazza di thrash metal. E davanti a questo spettacolo rimaniamo senza parole per capire che la vita è pura cecità (“America wake up” esorta Flynn).
Tematiche introspettive non escludono un suono potente ma si esprimono al meglio proprio grazie alla forza eversiva di cui il thrash è dotato: fragilità ed incertezza si insinuano strisciando come diaboliche presenze nelle liriche di “Damage Inside”. Le immagini si confondono e sfuocano, il suono di una voce aleggia lontana, facendoci smarrire il senso dello spazio e del tempo mentre percepiamo le ferite della nostra anima quasi le stessimo toccando.
La produzione è sempre calibrata e sa intervallare momenti di furia con stacchi più “meditati”. Non ci stupisce che dopo “Damage Inside” ci sia posto per il riff da motosega di “Game Over”, carico quanto l’alito di drago. Una voce astiosa esplode senza freni, ponendo fine a questo gioco di puerili menzogne mentre la chitarra lascia dietro di sè solo brandelli della realtà. L’innesto melodico è sempre presente ed è ancora epico e disperato nel suo impietoso richiamo. Forse, “Game Over” rivela un intreccio compositivo meno complesso rispetto ai primi brani ma lo slancio rimane intatto con la stessa, travolgente forza d’urto.
L’apocalittico dipinto si conclude con l’accoppiata “Imaginal Cells” e “Take Me Through the Fire”. “Imaginal Cells” è l’inizio della discesa nell’abisso dell’autodistruzione: le parole (tratte da “Spontaneous Evolution” del Dr. Bruce Lipton) scorrono in un flusso caotico, da cui emerge l’affanno dell’uomo che, senza accorgersi, sta decretando la sua fine. Attraverso gli arrangiamenti vibra la misera condizione umana, quasi ad indicare quanto l’evoluzione non sempre corrisponda a un miglioramento se l’istinto bestiale rimane lo stesso, con un solo obiettivo: la distruzione e la sopraffazione del proprio simile.
Le immagini che scorrono attraverso “Imaginal Cells” sono presto annientate dal ringhio minaccioso in “Take Me Through The Fire”. Il tintinnio dei piatti lancia un allarme e la voce roca si tramuta in folgore quando il ritornello si trascina inesorabile contro di noi, scavando un solco di melodia tra tanta sofferenza e rabbia. Attraverso le fiamme la storia si conclude allorchè le chitarre gemelle stipulano un patto nella forma di uno splendido assolo.
“Bloostone & Diamonds” apre nuovi orizzonti per il thrash e, in generale, per l’heavy, ampliando la visione dei generi, ormai da troppo tempo relegata al rifacimento. Gli strumenti per scardinare i cliché e oltrepassare i confini del vecchio sono tutti presenti nel platter e spaziano da una preparazione tecnica all’avanguardia, fino ad una sapiente mediazione tra potenza ferale e tragica armonia. Tutti questi elementi confluiscono in composizioni ricche di divagazioni e arrangiamenti ricercati ma leggibili, di jam sessions libere dal trambusto disorganizzato di un certo metal estremo, pur mantenendosi lontane d’aperture melodiche escogitate solo per un allargamento del consenso. Dunque, tirate un sospiro di sollievo: i Machine Head non hanno ammorbidito la loro formula, annacquando il sound, ma trattano con parole e suoni ancora tematiche scottanti senza perdere la loro sublime e innovativa ferocia. In “Bloodstone & Diamonds” finalmente il passato e il presente del thrash si incontrano e si delinea un nuovo inizio per questo genere, dimostrando che i tempi della gloria possono nuovamente splendere nella luce di un diamante oscuro.
Eric Nicodemo