Recensione: Bloom
Il prog è morto? Ma proprio per niente, anzi, ultimamente è uno dei generi più vitali del panorama metal. Karnivool, Haken, Tesseract, perfino i Protest The Hero e i Ne Obliviscaris, sono band che hanno trovato nuove forme al genere che un tempo era di Yes e Rush e più tardi di Dream Theater e Spock’s Beard. Lo stesso djent di gruppi come i Periphery è determinato da una perfetta fusione di death tecnico e pathos progressivo. In questo viluppo di band giovani e creative vanno ad inserirsi a buon titolo i Caligula’s Horse, che con Bloom, terza release di studio, vanno a ribadire un sempre più prominente spostamento degli epicicli progressivi verso l’Australia.
I Caligula’s Horse, bene o male, non sono portatori di una proposta originalissima. Vi si sente la chiara influenza di band antecedentemente citati, prima fra tutti quella dei loro connazionali Karnivool, quelli di Themata e di Sound Awake, a cui vanno ad aggiungersi varie eco di Haken e Tesseract. Ne viene fuori un sound forse derivativo e calibrato su vie piuttoto collaudate, rimane il fatto che il quintetto rimane in possesso di doti compositive sbalorditive.
Degli otto episodi di Bloom, costruito sull’alternanza di momenti elettro acustici, ora dolci ora sofferti, e rapide accelerazioni di chitarra su cui magistralmente regna l’ottimo singer Jim Grey, non c’è un solo secondo sprecato. Il disco si dipana tra instant hit, come le fenomenali Turntail e Firelight, due pezzi strepitosi con discrete velleità di airplay, e brani strutturati. Fireflight, brano presentato come singolo, si struttura su arpeggi semplici, caratterizzandosi per un groove avvolgente ed atmosfere sempre in crescendo. Turntail è invece un pezzo elettrico decisamente più movimentato e grintoso, anch’esso caratterizzato da ottimo groove e trame irresistibili.
Anche questi ultimi, ad ogni modo, rimangono estremamente semplici e godibili. Se Marigold ogni tanto si perde in qualche tecnicismo, Daughter of the mountain e soprattutto Dragonfly, mantengono costante il livello di catchiness. In particolare Dragonfly rivela influenze di rock classico, e, a dispetto del consistente minutaggio, rivela affascinanti influenze Buckleyane, del Buckley più melodico. Tant’è che spesso ascoltandola vengono in mente Grace o Last Goodbye, anche grazie all’incredibile prestazione, ancora una volta, del vocalist Jim Grey.
Bloom è un album che può conquistare il cuore di molti amanti del prog e del metal moderno e melodico, un disco facile e pur tuttavia non costruito, non di maniera. Al contrario un disco di grande passione ed ispirato come pochi altri lavori usciti di recente. La strada dei Caligula’s Horse, come quella di tutte le band citate in apertura, è spianata.
Tiziano “Vlkodlak” Marasco