Recensione: Blue Record
Sludge è un termine variamente inflazionato ed abusato al giorno d’oggi. I Baroness, così come i loro conterranei Mastodon, hanno trasceso questo genere, che è sicuramente figlio del fangoso sound del sud degli Stati Uniti e della loro Georgia in particolare, ma che ha trovato col tempo incredibili altre commistioni e proseliti in tutto il mondo.
Dopo un debutto su full-lenght come Red Album, che aveva destato qualche perplessità nella critica sul reale valore della band, a causa di una grossa mole di idee non sempre ben fissate o sviluppate appieno nel computo finale del disco, i quattro di Savannah danno alla luce dopo due anni di lavoro questo Blue Record per cercare di quadrare il cerchio.
Cambia il colore e sembra proprio che il blu sia il colore della svolta per i Baroness, perchè quest’album è quello che segna la maturazione e probabilmente la loro consacrazione definitiva.
Chi ascolterà con attenzione dall’inizio alla fine Blue Record sentirà sicuramente profumo di progressive nell’aria, perchè l’atmosfera creata è quasi quella di una colonna sonora, con un main theme che viene richiamato di tanto in tanto e tracce che sfociano, più o meno naturalmente l’una nell’altra, o sono legate da brevi ma eleganti gioielli strumentali che hanno il compito di alleggerire il mood generale della scaletta.
Bullhead’s Psalm, così, apre le danze con arpeggi dal sapore ottantiano che tanto sanno di Metallica dell’era Burton, lanciando nell’aria quel riff che rimarrà in testa fino alla fine dell’ascolto.
La doppietta che segue è di quelle che lasciano subito il segno. The Sweetest Curse, con le sue chitarre al granito ed il potente incedere della batteria di Allen Blickle (ancora una prova superlativa la sua), è semplicemente la prima sfuriata che contestualizza il terreno di coltura di Blue Record, una sorta di richiamo ai lavori precedenti.
Con l’orientaleggiante magnifica Jake Leg parte una serie di pezzi che definiscono in tutto e per tutto il nuovo (?) corso dei Baroness. Le chitarre settantiane, i ritmi al limite del beat, le doppie voci caratterizzate sovente dall’uso del controcanto, evocano spiriti del passato che furiosamente rivendicano il proprio rulo anche nel presente. Il brano in questione, in particolare, è un cavallo indomabile di tempi che si aggrovigliano fino a scemare nella ballata Steel That Sleeps the Eye: chitarra e voci con un lieve crescendo finale in attesa del vero masterpiece del disco, costituito da Swollen and Halo.
Inscindibile dalla song precedente, ne riprende il chorus esasperandolo fino a farlo evaporare nel camaleontico e quanto mai ispirato riffing della coppia Baizley/Adams.
Ogeechee Hymnal rappresenta una sorta di intervallo virtuale dell’opera, che poi tanto virtuale non sarà perchè, dopo una riproposizione leggermente più trionfalistica del tema iniziale, si passa lisergicamente ad un vero e proprio secondo blocco del disco, caratterizzato da ritmi più sostenuti, aperture più luminose e folli cambiamenti di tempo.
Ad aprire questa tendenza il primo singolo estratto dall’album, A Horse Called Golgotha, che parte con una cavalcata a la System of a Down, e continua con un incedere che ha dell’epico fino alla sua catartica conclusione.
La successiva O’er Hell And Hide procrastina quest’andazzo grazie ad una sessione ritmica quanto mai moderna e sincopata che accompagna egregiamente ed in maniera azzeccata le tonalità vintage e blueseggianti delle chitarre, spingendo quasi ad un’ebbra danza per tutta la stanza.
Quartina finale affidata ad una mastodontica, anthemica, War, Wisdom and Rhyme caratterizzata da un suono di batteria particolarmente sporco e da un chorus fatto per essere cantato dal vivo, dalla strumentale Blackpowder Orchard, e dalla traccia forse più orecchiabile di Blue Record, The Gnashing che và a tuffarsi in Bullhead’s Lament, titoli di coda perfetti per un metal album che fà un bagno nella psichedelia.
Nota di merito suppletiva allo splendido (per l’ennesima volta) artwork, in stile tatuaggistico old school, disegnato, come sempre totalmente, dal leader John Baizley: uno che se non facesse il musicista avrebbe comunque un avvenire assicurato nelle arti grafiche.
I Baroness hanno dimostrato di aver studiato la lezione, e stavolta meritano decisamente un voto alto per un disco più compatto del precedente, che cresce iperbolicamente ad ogni ascolto e che io, personalmente, sto facendo fatica a togliere dallo stereo.
La perfezione assoluta deve essere ancora raggiunta, certo, ma noi siamo pronti a farci stupire da un gruppo che, nel frattempo, può essere sicuramente promosso a concreta realtà di interesse internazionale!
Francesco ‘Darkshine’ Sorricaro
Tracklist
1. Bullhead’s Psalm 01:20
2. The Sweetest Curse 04:30
3. Jake Leg 04:23
4. Steel That Sleeps the Eye 02:38
5. Swollen and Halo 06:35
6. Ogeechee Hymnal 02:35
7. A Horse Called Golgotha 05:21
8. O’er Hell And Hide 04:22
9. War, Wisdom and Rhyme 04:25
10. Blackpowder Orchard 01:00
11. The Gnashing 04:17
12. Bullhead’s Lament 02:59
Durata totale 44:25