Recensione: Bones and Evil

Di Beppe Diana - 28 Agosto 2002 - 0:00
Bones and Evil
Band: Bejelit
Etichetta:
Genere:
Anno: 2002
Nazione:
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78

Era da tempo immemore, ovvero dall’uscita di “Violated child” secondo demo dei Deadline, che non ascoltavo una band nostrana cimentarsi con sonorità vicine come concezione ad un certo power metal di scuola americana, finche non mi sono imbattuto quasi per caso nei cinque Bejelit.

Con un monicker che richiama alla mente racconti mitologici dei paesi del nord Europa, i musicisti in questione sono italianissimi, arrivano dall’hinterland milanese e sono guidati dai fratelli Sandro e Giulio Capone, rispettivamente chitarra e batteria, anche se i più attenti di voi ricorderanno quest’ultimo dietro le tastiere dei redivivi Pandaemonium del debutto “..and the runes begings to pray” di qualche anno fa.

Come dicevamo, i nostri amici ci sparano in pieno volto una manciata di tracks in pieno US classic metal infarcite di contaminazioni speed/power metal, che hanno il pregio di farci rivivere le gesta e le ambientazioni tanto care a chi ha da sempre seguito con grande fervore bands del calibro di Omen, Helstar e i troppo sottovalutati Liege Lord, di sicuro la band ai quali i Bejelit si avvicinano maggiormente.

Davvero musica d’altri tempi verrebbe da esclamare, fuori dalle mode e dai trends del momento che istigano le leve più giovani ad adattarsi a certi modelli fuori dalla loro portata, quando sarebbe meglio lasciarsi guidare dal proprio istinto, un po’ come hanno fatto i nostri amici Bejelit i quali,  nonostante la loro giovane età, dimostrano già dalle prime battute d’avere le idee ben chiare sugli obbiettivi da raggiungere, nonché  di possedere parecchie frecce al proprio arco.

Un demo questo “Bones and Evil”, composto da sei tracce ottime sotto tutti i punti di vista, soprattutto quello compositivo, strutturalmente snelle, per niente appesantite da inutili orpelli che andrebbero quindi a ledere l’impatto delle singole composizioni, le quali vengono giocate, com’è prevedibile, più sulla fisicità dei riffs di chitarra, che sulla perizia tecnica fine a se stessa.

Tutti elementi questi, che si possono facilmente riscontrare su brani dalla caratura di “Death Chariot” e “Blood sign” autentiche killer songs, due vere mazzate sulle gengive, linearmente piuttosto semplici, ma dannatamente irresistibile, epica e suggestiva la prima, più melodica e avvincente la seconda contraddistinta da un coro che ti entra nelle vene sin dal primo ascolto, o come si evince sulle note della splendida “I won’t die every day”, toccante ballad contraddistinta da una prova sbalorditiva del cantante Fabio .

Dunque, tutto sembra girare per il verso giusto, anche se, com’e facilmente presumibile vista la giovane età dei musicisti chiamati in causa, di miglioramenti dobbiamo aspettarcene in futuro, eppure tanti, soprattutto a livello esecutivo e d’impostazione strumentale, speriamo solo che i Bejelit non perdano mai di vista la spontaneità che caratterizza le loro composizioni, un dono sempre più raro fra i musicisti di primo pelo, continuate così

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