Recensione: Born Beneath

Di Daniele D'Adamo - 8 Febbraio 2016 - 0:00
Born Beneath
Band: Wrathrone
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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50

La Storia dell’Umanità, si sa, è fatta di alti e bassi. Anni di vacche grasse cui succedono altrettanti anni di vacche magre, insomma. Analogamente, pare esserci in un momento d’involuzione generale, nell’ambito del metal estremo di terra scandinava. A parte i nomi storici della scena, le nuove leve rispondono a vari nomi per la verità poco conosciuti, come i presenti Wrathrone. Band che, pur possedendo le necessarie competenze tecniche, non pare siano all’altezza di quelle che le hanno precedute.

Nato nel 2008 a Laitila, in Finlandia, l’agguerrito quintetto giunge solo ora al debut-album, dopo il solito EP di presentazione (“Left Unburied”, 2013) e vari anni di presenza scenica in concerti sparsi per il circolo polare artico.

“Born Beneath”, registrato ai V.R. Studio di Turku da Jussi Vuola, più che un’opera prima rappresenta il raggiungimento di un traguardo al termine di un lungo periodo di gavetta e di ritocchi a un sound devoto sia all’old school death, sia alle sonorità più moderne possibili. Una discrasia apparentemente impossibile, questa, poiché una escluderebbe l’altra.

Tuttavia, i Wrathrone riescono a mettere assieme entrambe le caratteristiche principali di entrambi gli stili, per un risultato dai toni neutri e bilanciati, ricco di richiami al passato, ricco di componenti tipiche del modern metal. Il roco, potente growling di Matti Vehmas non fa una piega, anzi. È da enciclopedia. Nulla poi da eccepire nella perfezione dei battiti della sezione ritmica. Come del resto niente da dire sulla coppia d’asce, competente e brava sia nella parte ritmica, sia in quella solista.  

Ma allora cosa c’è che non va, in “Born Beneath”?

Molto semplice, rispondere a questa domanda: le canzoni. O, se si vuole, il songwriting. Purtroppo assai anonimo e scolastico. Tale da sommergere quanto di buono s’è scritto in termini di sound. A parte “Age Of Decadence”, difatti, del resto non si rammenta nulla, anche dopo reiterati passaggi. La song appena citata, anche se non eccezionale nel suo costrutto, è perlomeno foriera di buone sensazioni, di un percepibile feeling. Se non altro nel segmento melodico che corrisponde al break, di sicuro impatto armonico.

Il resto del platter, al contrario, scorre via senza sobbalzi, senza sussulti; affogato in una monotonia compositiva davvero sorprendente, data – anche – la provenienza geografica della band. Logica conclusione: la noia. Una noia che appare quasi subito, come se fosse l’elemento più rilevante del platter stesso.

Un gran peccato, insomma, poiché i Wrathrone hanno in sé tutte le carte in regola per far bene. Ma, se manca l’ispirazione e il famigerato quel qualcosa in più, l’impresa di riuscire a centrare l’obiettivo di plasmare un disco accattivante e godibile – di qualunque genere esso sia – , in definitiva, non può che fallire.

Miseramente.  

Daniele D’Adamo

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