Recensione: Born To Break
Ricordo perfettamente la buona impressione che mi fece “Game On” nel 2015, album col quale conobbi le scozzesine di Edimburgo, anche se non si trattava del loro esordio ma della seconda prova in studio. Lo scostumato esordio “Haulin’ Ass” era stato pubblicato in modo indipendente (appena 1000 copie) addirittura nel 2010, per poi essere ristampato appena un anno fa; così come a “Game On” è seguito “White Hot Heat” (2016), portando la discografia delle ragazze già a quota quattro titoli effettivi. Con un po’ di orgoglio nazionale le Amorine vengono definite in patria “la migliore rock band della Scozia dai tempi dei The Almighty”, ed in effetti da quelle parti l’album sta andando benino, avendo toccato persino il 13esimo posto nelle charts. Un trio di ragazze che suona rock ‘n’ roll sudaticcio e irriverente fa sempre notizie da che Marshall è Marshall e pure i Media non ci hanno messo molto ad accorgersi della loro presenza. I paragoni scomodati sono corsi a nomi come Airborne e Motorhead, abbastanza impropri entrambi a mio parere. Infatti dicendo Airborne si dovrebbe intendere AC/DC, mentre per quanto riguarda i Motorhead sono una di quelle etichette che vengono affibbiate un po’ ovunque a chiunque, magari per il solo fatto di suonare genuinamente rock ‘n’ roll, per giunta sotto l’egida della corona della regina Elisabetta.
Certamente la band di Angus Young rappresenta un’influenza primaria delle The Amorettes, che declinano in buona parte da lì la costruzione dei propri riff, anche se non si può parlare di copia/incolla (ehm…come invece accade ad una certa band australiana). Non ci sono solo gli autori di “Black In Black” nelle corde (elettrificate) delle ragazze, si materializzano facilmente le aggraziate silhouette di altri gruppi come le Runaways, le Girschool o le The Donnas a costituire ulteriori possibili influenze, o quantomeno realtà assimilabili ed accostabili al sound di “Born To Break“. Nate per spaccare, un po’ si un po’ no; se infatti è vero che le Amorettes sono energiche, accattivanti e assai spontanee nel loro modo di intendere il rock, si avverte un po’ il freno a mano tirato, anche per via della produzione che, a mio parere, non si rivela adeguatissima al songwriting delle nostre. Il suono (delle chitarre in particolare) si rivela troppo morbido e smussato, finendo con l’addolcire la carica adrenalinica del trio. Si sente che c’è passione, grinta ed intensità ma in qualche misura il sound va nella direzione opposta, lisciando le spine che invece dovrebbero risultare più irsute. Manca un po’ di selvaggeria, di crudezza, di confusione insomma (in deficit anche la timbrica non proprio scartavetrata di Gill Montgomery), c’è un’esagerata pulizia per essere un album che qualcuno – lo ricordo – ha inteso persino accostare ai Motorhead.
L’ascolto è gradevole, i pezzi sono discreti, sempre ben bilanciati, e viene difficile parlar male delle ragazze perché formalmente l’album sta in piedi e non ha grossi difetti. L’ho ascoltato parecchio perché ogni volta che lo finivo mi rendevo conto che non avevo assimilato granché, e per scrivere la recensione mi ritrovavo con un pugno di mosche in mano. Mi pareva quasi che, una volta scritto che si trattava di classico hard rock piuttosto piacevole, non ci fosse sostanzialmente molto altro da aggiungere per descrivere l’album. Troppo poco. Allora ricominciavo da capo e così facendo ho assommato svariati ripassi di “Born To Break”. Il punto è che davvero non sono mai riuscito a dissolvere quella impressione iniziale. “Born To Break” si guadagna senza difficoltà alcuna la sua brava sufficienza, le ragazze fanno simpatia e il senso di autenticità che la loro musica trasmette è contagioso, tuttavia il disco non aggiunge neanche una virgola alla mia esperienza di ascoltatore e rocker giunto al 2018 dopo Cristo. “Born To Break” è “solo” un disco carino, come tanti, che non lascia un segno memorabile nel firmamento del rock; un disco come ne escono mille, con la particolarità che la band è all-female e magari viene da una zona geografica un po’ periferica rispetto al music business che conta. Siamo però anche al quarto titolo in carriera e sarebbe lecito aspettarsi qualcosa di più incisivo e delineato. Schiette e lineari, le Amorettes rimangono un po’ a metà strada, indecise se essere carne o diventare pesce.
Marco Tripodi