Recensione: Born To Fight
Anno 1985, il mondo metal è attualmente diviso in due tronconi, quello di matrice statunitense e quello europeo. L’Italia si ritrova quindi in questo secondo blocco, ma non sta certo ferma a guardare: un manipolo di irriducibili si ostina a cercare di raggiungere il successo con un tipo di musica che nel Belpaese viene etichettata spesso con scherno, e sovente osteggiata e boicottata. Di contro, c’è da ammettere che i primi ad osteggiare e boicottare erano proprio i metal kidz italiani (italioti in tanti casi), che ad ogni occasione ricoprivano di fischi gli act nostrani.
Peccato, perché, nonostante alcuni evidenti difetti (su tutti una pronuncia ed un uso della lingua inglese assolutamente a sproposito, senza tralasciare le produzioni assolutamente scadenti), molte band di casa nostra sono state capaci di sfornare alcune gemme eternamente sottovalutate, come “Due” degli Elektradrive, “Tension at the seams” degli Extrema, “Black mass” dei Death SS , “Victim of time” dei Danger Zone e molti altri. Tra questi gruppi, però, ce ne fu uno che riuscì ad uscire in parte da questo underground forzato, i milanesi Vanadium.
Il gruppo meneghino si impose sulla scena come band leader del movimento italiano e riuscendo (in un periodo molto diverso da quello attuale) a fare da spalla a gruppi come Motorhead e Twisted Sister, ad effettuare tournee regolari in Italia e finendo addirittura (per l’epoca) a suonare all’estero, dalla Francia al pregiato cult club Marquee di Londra. Giunta all’esordio discografico nel 1981 con il grezzo “Metal rock”, la band aveva pian piano imposto il suo stile, derivato da padri putativi, quali Deep Purple e Rainbow, ma anche Rolling Stones e Ac/Dc. La loro carriera può dividersi in due, quella maggiormente legata alle sonorità dei gruppi sopracitati, culminata nella pubblicazione di “Live- On streets of danger” (capolavoro fra i dischi dal vivo), e quella dove il gruppo cercherà di proporre un trademark più personale e più adatto agli anni 80, ed il cui apice è rappresentato proprio da questo “Born to fight”.
Il disco vede alla produzione il celebre Lou Austin, (già con i Whitesnake), il quale finalmente riesce a rendere giustizia al sound del combo meneghino, pur non facendo un lavoro di mix perfetto al 100%, come la band ammetterà in sede di intervista senza problemi e con la più grande onestà. Un’intro solenne di organo ad opera di Ruggero Zanolini (senza timore lo si può definire come uno dei migliori emuli di Jon Lord) apre la mitica “Run too fast”, cult song che vede i nostri alle prese con un power-speed a metà strada tra Rainbow e Judas Priest. Su una ritmica possente di Mascheroni, si appoggia un riff da infarto di Tessarin, che fa da sfondo alla rabbiosa performance di Pino Scotto. Su quest’ultimo personaggio andrebbero spese alcune parole: per troppo tempo questo singer è stato denigrato da un pubblico ingiusto e presuntuoso. Vorrei ricordare che, oltre che essere un grande cantante, Pino è uno “vero”, che viene dalla strada, una vera icona di questa musica, che lui già amava quando erano in pochi a conoscerla.
Se l’opener rifletteva modelli stranieri, abbastanza facilmente riscontrabili (ma che non toglievano niente al valore della song), la successiva “Still got time” porta con sé un marchio tutto nuovo, le influenze della band si fondono in un’alchimia unica, tanto Metal, quanto AOR, il cosiddetto Class Metal, visto sotto un’ottica differente, tanto che la canzone non può avere etichette, se non quella dei Vanadium. Il testo di ”Still got time” è una perla che arricchisce il pezzo e lo rende una perfetta fuga dalla realtà quotidiana. L’heavy rock di “Before it’s too late”, fa da perfetto contraltare alla power ballad “Easy way to love”, all’epoca estratta come singolo ed accompagnata addirittura da un video. Se questo pezzo fosse stato scritto ed eseguito dai Van Halen o dai Twisted Sister, sarebbe stato un hit in tutto il mondo, ma spesso il music biz è crudele, e questo i Vanadium già lo sapevano, come testimoniato dalla canzone “Streets of danger” del loro precedente album.
Il lato b si apre con la spumeggiante “I was born to rock”, con i suoi cori scanzonati, che scimmiottano quelli del glam/pop metal d’oltreoceano. “Never before” è una cover dei Deep Purple, tratta dal loro best seller “Machine Head”. Curiosamente, il pezzo è forse il meno celebre dell’album degli inglesi, ma forse è questo il motivo che ha spinto la band meneghina a rivalutare questa song, ben reinterpretata, e non usata come semplice riempitivo. Si cambia registro con la strumentale “Ridge farm”, dedicata ai mitici studi inglesi, dove la band si ritrova a registrare. La chitarra di Stefano Tessarin, pennella melodie incredibili, e spara assoli alla velocità della luce, ben supportato dal resto della band.
La conclusiva “Arms in the air” è caratterizzato da un tappeto di doppia cassa ad opera di Lio Mascheroni, su cui la band tutta dà sfogo ad una song arrabbiata e dedicata.
Questo è un grande esempio di come vadano messi da parte i pregiudizi, e capire che anche in questo Paese ci sono stati (e ci sono) “bad boys” capaci di sfornare del sano rock, con l’attitudine giusta che nulla ha da invidiare a molti big di turno.
Tracklist:
1) Run too fast
2) Still got time
3) Before it’s too late
4) Easy way to love
5) I was born to rock
6) Never before
7) Ridge farm
8) Arms in the air