Recensione: Bottled out of Eden
Strano l’aprile della Inside Out, che ha visto l’uscita dei Messenger, affrontata appena due giorni addietro, e dei Knifeworld, di cui oggi. Due dischi, a onor del vero, relativamente distanti dal progressive moderno cui l’etichetta ci ha abituato, e a tutti gli effetti piuttosto distanti dal progressive in sé.
I Knifeworld infatti possono infatti avere marcate influenze prog, ma sono decisamente vicini ai Beatles e al Brit pop più schizzato… quello dei Kula Shaker migliori, per dirne una. Trame semplici e un songwriting cristallino, da airplay, sono le principali caratteristiche di Bottled out of Eden. Prendete i The Tangent e semplificatene sensibilmente la proposta, in termini di perizia esecutiva come di minutaggio, e avrete il terzo lavoro dei Knifeworld.
Perfino la voce di Karvus Torabi è molto “tangente”, le backing di Melanie Woods fanno venire in mente i Delgados (che probabilmente sono impressi nella memoria del solo recensore). L’effetto immediato è molto piacevole, High Aflame, Foul Temple, Feel the Sorcery sono pezzi dissimili che pure rimangono bene impressi nella memoria e si lasciano ascoltare con piacere.
A tutti gli effetti però l’album mostra segni di cedimento sulla media distanza. Di fatto i pezzi, per quanto ben fatti, iniziano assai presto a stancare, appaiono assai scontati e vengono dimenticati piuttosto in fretta. Non c’è niente che non vada in in questo album, e forse è quello il problema.
I Knifeworld con questo loro terzo disco si limitano a compiere un esercizio di stile, tirano fuori un pugno (ben undici) di canzoni che hanno parecchie carte in regola per piacere a molti. Tuttavia hanno anche parecchie carte in regola per sembrare, non vogliamo dire proprio anonime, ma sicuramente scontate. Al di là dei tre pezzi citati in precedenza, il resto scivola via non appena l’ascolto è finito. Ed è un peccato perché questa band di mezzi ne ha parecchi.