Recensione: Boys will be Boys Expanded Edition
Come già scritto nella recente recensione relativa ai Weapon, in Inghilterra a inizio anni Ottanta era in atto una rivoluzione musicale: centinaia di band metallarissime una più agguerrita dell’altra si contendevano gli angusti spazi che potevano garantire loro un posto al sole. Pochi di quegli ensemble riuscirono nell’impresa, ove per impresa si intende la possibilità di vivere di musica. La concorrenza era altissima e la qualità media dei gruppi pure: il fatto di essere al momento giusto nel posto giusto poteva indirizzare per il meglio un’intera carriera, al di là dei valori squisitamente tecnici. In quel tritacarne siderurgico che fu, appunto, la New Wave of British Heavy Metal troppe valide band vennero sacrificate mortificando sul nascere o quasi delle gemme che inevitabilmente furono condannate a non sbocciare mai del tutto. Si possono avere “in casa” i migliori pezzi del mondo ma se non si riesce a crearsi un’opportunità tutto poi sfuma: l’entusiasmo muore e con esso i sogni di gloria.
Il periodo della Nwobhm ha consegnato alla Storia dell’Acciaio band incredibili, Campioni quali Saxon, Def Leppard, Iron Maiden e anche i Venom, ma il loro successo inevitabilmente ha castrato le speranze di tanti altri, che si sono dovuti accontentare, nel migliore dei casi, di piazzamenti per l’Europa League. L’elenco sarebbe sterminato, per molti la vera essenza del British Steel risiede, oltre che nei solchi degli obbligatori Wheels of Steel e Iron Maiden (l’album) in tantissimi 45 giri a tiratura limitata e Lp rimasti unici nella discografia di band alle quali spesso non è stato concesso nemmeno quel quarto d’ora di notorietà di wahroliana memoria.
I Black Rose della zona di Middlesbrough furono fra le band che arrivarono tardi, troppo tardi, con una testimonianza ufficiale su trentatré giri del loro percorso. Nel 1984, quando uscì Boys Will be Boys, l’onda d’urto e l’influenza sul mondo metallico della Nwobhm era ormai attenuata e giovani band costituite da musicisti brufolosi famelici di gloria si stavano ricavando, a suon di dischi epocali, il meritato posto al sole, sulla base di un sound nuovo, fresco, veloce e violento, identificato come Thrash Metal.
La Rosa Nera, in realtà, nacque solamente nel 1980. Prima si chiamava semplicemente Ice e prese forma nel 1976. I primi anni Ottanta furono vergati, successivamente a un demo, da un 45 giri, dalla presenza in una mini compilation e da un Ep, “Black Rose”, del 1983. Dopo Boys Will be Boys dell’84 e Walk it how you Talk it dell’86, come per altre innumerevoli realtà figlie della frustrazione l’inevitabile scioglimento, al crepuscolo degli Eighties per poi tornare nel 2006 e pubblicare nel 2010 l’ultimo album, a oggi, della discografia: Cure for your Disease.
I Black Rose approdarono anche in Italia per la prima volta nella loro storia, suscitando l’emozione di molti appassionati dell’immortale Nwobhm-sound, calcando le assi del Circolo Colony di Brescia il 15 marzo 2014 durante il Play it Loud Festival 2014, l’edizione con Satan, Holocaust, Muro e altri valorosi defender.
Seppur privi di una carriera accompagnata da fuochi artificiali, i Black Rose, come si diceva sopra, incarnano lo spirito più puro della seconda ondata dell’HM made in Uk e, proprio per questo, godono del rispetto di quei fan che non ne vogliono sapere di fermarsi alle sole big band del periodo. L’occasione per approfondire la parabola artistica di Steve Bardsley (voce, chitarra), Chris Watson (chitarra), Mick Thompson (Basso) e Malla Smith (Batteria) la fornisce quest’anno l’etichetta inglese Blood and Iron Records tramite la pubblicazione di Boys will be Boys Expanded Edition in 500 copie limitate. Un Cd contenente, oltre Boys will be Boys del 1984 (per la prima volta su Cd), il singolo Liar dello stesso anno e l’intero Ep “Black Rose” del 1983. Al solito, ottimo il booklet accompagnatorio: venti pagine con tutti i testi dei brani, foto della band, stralci di articoli vari, e la storia del gruppo raccontata da Steve Bardsley in persona. Accattivante anche la grafica interna, con una rosa rossa (?) a far da sfondo alle pagine di colore grigio contenenti i testi e la storia del gruppo.
Le “danze” si aprono con Boys will be Boys e si chiudono quattordici pezzi dopo, tutti rimasterizzati, sulle note di Stand your Ground. A livello generale i Black Rose ricordano da vicino altre band Nwobhm capaci di forgiare cori e refrain che si stampano in testa e lì vi rimangono per sempre, sulla spinta della giusta durezza mista a melodia sparsa. Sono convinto che molti dei gruppi hard rock dai capelli cotonati della L.A. anni Ottanta si siano studiati ben bene i pezzi dei quattro metaller del North Yorkshire, rielaborando in chiave yankee la loro proposta. Il tormentone Boys will be Boys per capacità penetrativa “prende bene” ancora oggi a distanza di trentadue anni. Pure la successiva We’re Gonna Rock you non scherza ‘na minchia e via di questo passo attraverso il resto dei brani. Citazione a parte merita la ballata Baby Believe me, concepita e sviluppata in maniera naif da parte dei Black Rose: il tipico pezzo che, se solo fosse finito in altre mani, avrebbe goduto di una iperproduzione capace di agguantare qualche passaggio in radio prezioso, come minimo. L’ala dura dei ‘Roses viene viceversa esplicitata all’interno di No Point Runnin’, Knocked Out, Used & Abused e Red Light Lady, con queste ultime due tratte dall’Ep del 1983.
Black Rose: la testimonianza di un’ulteriore modalità di interpretare il rock duro inglese durante il periodo Nwobhm.
Stefano “Steven Rich” Ricetti