Recensione: Brant Bjork
Sul finire degli anni Ottanta, mentre nel North West Pacific nasceva quell’ibrido tra heavy metal, hard rock e punk che di lì a poco, con il nome di grunge, avrebbe rivoluzionato il mondo del rock mainstream, nel deserto californiano, intorno a Palm Desert, si sviluppava la corrente stoner/desert.
Quest’ultima, come il grunge, attinge ampiamente dagli insegnamenti dei Black Sabbath, ma a differenza del sound di Seattle è caratterizzata da ritmi lenti, riff downtuned e ripetitivi e da un marcato orientamento a digressioni psichedeliche (evidente l’influenza di Hawkwind, Blue Cheer e Blue Öyster Cult) e a dilatazioni sonore. E’ un suono caldo, il cui nome – stoner – è un esplicito riferimento allo stato stralunato indotto da questa musica, simile agli effetti provocati dal consumo di cannabinoidi.
Il contribuito di Brant Bjork alla nascita e all’evoluzione del desert/stoner, in qualità di polistrumentista, cantante e produttore, è stato fondamentale. E’ ancora uno studente della high school quando, insieme a John Garcia e Josh Homme, fonda i Kyuss, indiscussi pionieri del genere, con cui incide tre album nel ruolo di batterista e compositore. Altri passaggi importanti sono la militanza, sempre dietro alle pelli, nei Fu Manchu e le numerose collaborazioni a cui ha preso parte, tra cui quella con i Mondo Generator dell’amico Nick Olivieri (ex compagno nei Kyuss) e alle Desert Sessions, il collettivo formatosi attorno al Rancho de la Luna di Joshua Tree.
Con il volgere del millennio è però la carriera solista a divenire prioritaria per Bjork: in compagnia di altri musicisti o completamente solo (come in questo ultimo lavoro), ci ha abituato a uscite piuttosto frequenti (oltre una dozzina in vent’anni) e diversificate, che spaziano dal rock/funk di “Jalamantha” (1999) all’heavy rock di “Gods & Goddesses” (2010), passando per la parentesi acustica di “Tres Dias” (2007).
Nel 2018 Brant si accasa presso l’etichetta italiana Heavy Psych Sounds (che ha in catalogo alcuni tra i nomi più interessanti della scena stoner nazionale e internazionale) che dà alle stampe “Mankind Woman” (2018), “Jacoozzi” (2019) e, di recente, l’ultimo “Brant Bjork”.
Nelle otto tracce del nuovo lavoro, che pur rimane in territori desert rock a forti tinte blues, si alternano registri espressivi diversificati. “Jungle in the Sound” e “Stardust & Diamond Eyes” sono pezzi funk rock con sezioni ritmiche puntellate da percussioni su cui si innestano caldi riff rock-blues. La componente heavy rock è predominante in “Jesus Was a Bluesman”, “Cleaning out the Ashtray” e “Shitkickin’ Now”.
“Mary (You’re such a Lady)” e “Duke of Dynamite” sono invece tipicamente stoner: la prima è lineare e sobria, mentre la seconda è cupa, con linee vocali che rincorrono le tonalità dei riff, chitarre a tratti dissonanti e un assolo psichedelico che proietta l’ascoltatore in un vortice caleidoscopico. A calmare le cose ci pensa la traccia di chiusura “Been so Long”: classico esempio di rock alternativo arrangiato con la sola chitarra acustica.
Al di là delle singole composizioni, la forza dell’album risiede nel suo mood generale: il calore del suono e delle linee vocali creano atmosfere confortevoli e familiari, ma non del tutto prive di “pericoli”, rappresentati da riff e assoli psichedelici che sbucano all’improvviso e sembrano voler farsi beffa della razionalità dell’ascoltatore. A favorire l’accessibilità dell’album, oltre che il livello qualitativo della proposta, contribuiscono il running time contenuto (poco più di mezz’ora) e il buon lavoro di registrazione e missaggio svolto da Yosef Sanborn a Joshua Tree: pulito e preciso, pur essendo moderno è capace di catturare lo spirito senza tempo di questi brani.
La conclusione più importante che si ricava dall’ascolto dell’album è che, dopo così tanti anni sulle scene, Brant Bjork ha ancora molto da dire.
Certamente la sua evoluzione artistica denota un ammorbidimento fisiologico e la volontà di farsi interprete di sonorità più mature, ma tutto ciò avviene con spontaneità, coerenza e senza manierismi.