Recensione: Breaking The Fourth Wall [CD + DVD]
La videografia dei Dream Theater, così la loro discografia, è ormai tanto nutrita che anche il fan più incallito fatica a stare al passo con i tempi. Breaking The Fourth Wall è l’ottavo dvd live dei newyorkesi, a nemmeno un anno di distanza dal buon Live At Luna Park.
Ennesima trovata commerciale, dunque, oppure timore degli anni che si fanno sentire e che magari di qui a qualche tempo potrebbero rendere più difficoltoso scendere a patti con le scalette da due ore e mezza, cui ci hanno abituati Petrucci e compagni?
Né uno, né l’altro, i Dream Theater immortalano l’ennesimo show memorabile – quello del 25 marzo all’Opera House di Boston – omaggiando la loro scuola, il Berklee College of Music, luogo di formazione del gruppo. Qui s’incontrarono John Petrucci e John Myung a metà anni Ottanta per creare un sodalizio che dura ancor oggi; a loro si unì, poi, Mike Portnoy che condivideva la passione ibrida per il metal (di Iron Maiden, Metallica e Queensrÿche) e il prog. targato Rush e Yes.
Rendere un tributo al proprio passato non è mai sinonimo di autoreferenzialità, semmai un gesto di profonda maturità e segno di una giusta autostima acquistata negli anni. Ecco, perciò, che il dvd ha una sua ragione d’essere e non guarda solo al tornaconto economico.
Galeotta è stata, poi, la collaborazione con il giovane Eren Başbuğ, che ha impreziosito la suite “Illumination Theory” nel self-titled dell’anno scorso, salvando il disco dal pericolo sempre latente della buona mediocrità. Il talento del Berklee, infatti, ha accettato di partecipare al concerto dei Dream Theater in quel di Boston per condurre l’orchestra del College of Music nella parte finale della scaletta.
Una sinergia simile (Jamshied Sharifi permettendo) è avvenuta all’epoca di Octavarium, del grande live Score, con tanto di “Six Degrees Of Inner Turbulence” suonata per intero e con overture sinfonica; in questo caso, però, a otto anni di distanza, le motivazioni sono diverse. Nel 2006 si voleva stupire e celebrare un traguardo significativo per la band (le due decadi di attività); oggi i Dream Theater, come già detto, hanno riscoperto le proprie origini (non a a caso John Myung in un’intervista recente parla del suo gruppo come di una “progressive hard rock band”) per rilanciarsi dopo l’uscita di scena del deus ex machina Mike Portnoy, il quale, invece, con album come Systematic Chaos e Black Clouds & Silver Linings ha tentato di ammodernare il sound del combo ma con esiti dubbi.
Diciotto tracce in totale, con tre strumentali e cinque pezzi oltre i dieci minuti di durata. Tributo, inoltre, ai vent’anni di Awake, ai quindici di Scenes From A Memory (LaBrie ironizza dicendo che John Petrucci ha composto l’album quando aveva quindici anni!) e ottime hit dalla discografia più recente (“The Enemy Inside”, “On the Backs of Angels”, “The Looking Glass”, “Breaking All Illusions”).
Cosa desiderare di meglio? Volendo cercare difetti, non passa inosservata “The Shattered Fortress” in seconda posizione, song dura da digerire (anche se di per sé il brano vede un Rudess stellare diviso tra continuum e tastiera); “Trial of Tears” figurava già nel Budokan e, in parte, nello “Shmedley Willcox” di Chaos In Motion. Si poteva optare per l’inserimento di qualche ballad dal disco del 1997 e, perché no?, iniziare a pensare alla “Twelve-Step Suite” nella sua parziale o totale interezza. Niente di eclatante, tuttavia, tanto più che la setlist è variegata e la prova dei cinque americani è da invidia pura (vabbè LaBrie ha i suoi alti e bassi come sempre).
Venendo brevemente all’aspetto scenico, va detto che il palco è ben allestito, l’occhio si trova compiaciuto, considerata la cura dei dettagli e il ricorso a telecamere fisse vicino ai musicisti, che ne immortalano le magie, anche se li costringono a pose statiche (quando mai, però, i Dream Theater sono stati una band di funamboli?). Petrucci e Mangini sfoggiano una capellatura liscia ben poco metal, mentre l’identità del gruppo appare indefinibile nel considerare le t-shirt anodine dei cinque newyorkesi. Tutt’altro discorso, invece, per la sontuosa strumentazione, vera protagonista dello show: le nuove Music Man di Petrucci sono una delizia per la vista, così le pedaliere del chitarrista e di Myung; Rudess vive in un universo alternativo tra tecnologica e fantascienza; il drumset di Mangini pare un’astronave dai poteri imprevedibili.
La macchina theateriana è, quindi, ben collaudata anche dopo il cambio di line-up, la scaletta ormai fissa per l’intero tour (indizio di cedimento del combo, dopo l’uscita del pretenzioso Portnoy che voleva sempre stupire?) e i quattro strumentisti sciorinano note a velocità disumana. Colpisce come sempre la compostezza di Petrucci, privo di punti deboli sia in fase ritmica, sia solistica: in questo live non regala un assolo inedito e orgastico come in Live At Luna Park, ma la sua prova è d’applausi a prescindere. Myung è il dio silente che non sembra necessario, ma la cui assenza peserebbe in modo considerevole nell’economia del sound della band. Rudess incarna il dualismo più estremo: a vedersi pare un cinquantenne ingobbito, ma a sentirsi è un keywiz dall’eclettismo totale. I suoi due camei con la zen riffer sono fenomenali, così i duelli e gli unisoni con Petrucci. Mangini a sua detta deve limitarsi in quanto a presenza scenica per non eclissare il leader LaBrie, ma vederlo percuotere i tom è comunque una goduria. La sua Pearl suona in modo del tutto diverso dalla Tama di Portnoy, ma la perizia tecnica è indiscussa: non riesce a riproporre i fuochi d’artificio finali in “Finally Free” (così come l’attacco di “6:00” l’anno scorso), ma per il resto è un robot, che regala anche un veloce ma gustoso assolo in “Enigma Machine”. LaBrie, da ultimo, fa del suo meglio per non sfigurare e ci riesce a metà. Ormai ha capito come regolarsi sugli acuti e si trova a suo agio con i pezzi nuovi e nelle ballad meno impegnative; con i cavalli di battaglia del passato, invece, fa a pugni in più di un caso. Il suo pizzetto da cattivone vuol forse ribadire che i Dream Theater sono una band metal, ma lo shaker rispolverato dal passato è inutile e ridicolo.
Sequenza migliore del dvd la cinquina di brani tratti da Awake, a detta di scrive il miglior album degli americani. I toni possenti di “The MIrror” e “Lie” sfumano nel baluginio della dinamiche toccanti di “Lifting Shadows off a Dream!, nel tapping introitale semplice ma efficace di “Scarred“, infine nel capolavoro “Space-Dye Vest“, canzone di commiato scritta da Kevin Moore ormai vent’anni fa.
La presenza dell’orchestra e del coro è palpabile in “Illumination Theory”, ma anche nello staccato d’archi di “Finally Free”. Si poteva fare meglio, ma quanto è stato realizzato è buono.
I nostri provano anche a rendere il live più personalizzato con le solite animazioni in super deformed e alcuni brevi filmati con il fil rouge dell’automobile gialla nel self-titled (che sostituisce il monociclista di A Dramatic Turn of Events e le mascotte passate, tra elefantini, allegre formiche e pendoli di Newton). Ben vengano queste trovate, un po’ meno le fastidiose sovrimpressioni che qua e là peggiorano la fruizione del live; discorso diverso per l’uso dello split screen, sapientemente dosato dai fratelli Lamoureux alla regia. Niente da ridire sul mixaggio, opera del navigato Richard Chycki.
In chiusura solo una considerazione. Il titolo del live dvd non è dei più azzeccati: rompere il quarto muro (scenico) significa non solo fare metateatro, bensì entrare in rapporto diretto con il pubblico a prescindere da cerebralismi. Petrucci e compagni restano, invece, fissi nei loro virtuosismi, riuscendo sì a trasmettere emozioni, ma a condizione che il muro tra fan e artista resti ben solido…
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)