Recensione: Breath Of The Demiurg
Alzi la mano chi, amante del death metal, sente la mancanza degli Edge
Of Sanity: siete in tanti, eh? Bene, sappiate che ovviamente la fine di quel
gruppo seminale non ha significato la conclusione della vicenda artistica di uno
degli artisti più poliedrici mai usciti dalla Svezia, Dan Swanö, anzi.
Ma in realtà non siamo qui a parlare di lui, oggi, o perlomeno non solo: i Demiurg
sono infatti la scintillante creatura di quello che a prima vista potremmo
tranquillamente definire il ‘delfino’ di Dan, e cioè Rogga Johansson,
già membro degli stessi Edge Of Sanity, oltre che di Ribspreader,
Deranged, Paganizer ed altri gruppi più o meno addentro al
viscerale death scandinavo. Rogga, chitarrista e cantante, non ha nessuna voglia
di lasciar cadere quanto di buono espresso in anni ed anni di passione musicale
e decide di dare alle stampe un lavoro che affonda le proprie radici nel
suddetto genere musicale, riprendendone i canoni in pieno; ma, e qui sta il
bello, il tutto viene rinfrescato da alcuni suoni ed arrangiamenti decisamente
moderni, quasi progressivi (ma prendete questo termine con le dovute pinze), che
variano la formula e rendono estremamente interessante il tutto.
Questo debut (Rogga ha infatti messo in piedi il progetto solo l’anno scorso)
si avvale, e qui chiudiamo il cerchio, della produzione ma soprattutto della
capacità strumentale dello stesso Dan Swanö, presente alle pelli ed
alle tastiere, lasciando il basso a Johan Berglund dei misconosciuti This
Haven; e tutto viene ammantato di anni ’90, senz aperò quell’operazione di
nostalgico ma anche abbastanza sterile rispolvero che ha caratterizzato molti
dei dischi inseritisi in questo filone negli ultimi anni, anche di quelle stesse
band in cui Johansson suona o ha suonato. Rispetto a Ribspreader e Paganizer,
infatti, i Demiurg danno vita ad un disco che, paradossalmente, rende
moderno un genere con 20 anni di storia alle spalle, e che potrebbe invece
essere stato creato solo ieri, ascoltando questi brani: da una splendida The Dreams Without End,
con il suo break epico che ricorda qualcosa dei Pan.Thy.Monium, al groove
made-in-Stockholm di City Of Ib; il tutto passando dalle cadenze
rompicollo di Monolithany, in cui il cantato si fa anche più aspro, sino
all’obbligatoria outro strumentale Sarnath (City Of Ib Pt. II).
La produzione, si diceva, è a cura dell’immancabile Swanö e dei suoi sempre
più rinomati Unisound Studios: lungi dal divenire fonte di standard musicali
come i pur sempre ottimi Abyss, così come dall’affondare nella decadenza degli
ormai superati (purtroppo) Sunlight, questi studi riescono a dare vita a quel
mix sonoro capace, appunto, di tanta modernità nel classicismo scolastico.
Suoni grassi ma puliti, avvolgenti ed epici, e sicuramente non aridamente
digitali come pare sia inevitabile ai giorni nostri. Ottimo, infine, l’intero
artwork e layout del disco, che esprime a pieno la ripetutamente citata
dimensione epica di Breath of the Demiurg.
Stupisce la lungimiranza di una Mascot Records, nota fino a poco tempo fa per
i suoi successi nel campo del virtuosismo strumentale, che assolda quello che è
uno dei gruppi più originali nella loro fedeltà ai canoni e intuisce il
potenziale innovativo di un simile disco: sperando che venga recepito a dovere e
non si disperda nella miriade di uscite mediocri.
Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli
Tracklist:
1. The Dreams Without End 04:08
2. Flesh Festival 03:44
3. City of Ib 04:55
4. Monolithany 02:49
5. The Primitive Machinery 04:04
6. Orbiting a Dead Sun 04:46
7. Scorn Empire 03:28
8. Monolithany Pt. II 03:42
9. The Doom that Came to… 04:36
10. Sarnath (City of Ib Pt. II) 03:49