Recensione: Bridge To Mars
Il platter di cui ci accingiamo a raccontarvi parte, e nell’aria si spande un suono carico di riff hard rock, in cui si stagliano sprazzi di psichedelia allucinata, fughe strumentali, rimandi zeppeliniani e cupezze sabbathiane e doom.
Ok, ma allora qui il Maraglino ci sta raccontando della reissue di qualche oscura band dei seventies, opportunamente rimasterizzata da qualche illuminata label contemporanea?
No.
“Bridge To Mars”, primo album della omonima band scandinava, è un prodotto dell’ anno di grazia 2016, sebbene ispirato ad un suono libero, duro e sognante insieme, che pare invece provenire senza mediazioni (o, meglio, talora con le mediazioni fatte a suo tempo da gente come Soundgarden e Wolfmother) dalle suggestioni musicali di qualche decennio fa.
La band che ha messo in cantiere questo lavoro è un terzetto (come usava dalle parti dei Cream, della Experience ma pure dei Rush), costituito da gente esperta come JJ Marsh alla chitarre e alla voce, Thomas Broman alla batteria (entrambi e soprattutto il primo, hanno spesso lavorato al fianco di Glenn Hughes, anche nello Hughes-Turner Project), e Robert Hansen (Beardfish) al basso.
Insoddisfatti, evidentemente, del limitarsi ad accompagnare i disegni artistici altrui, i tre hanno deciso di cimentarsi in un progetto autonomo, e Bridge To Mars ne è il risultato, nel quale i tre artisti danno libero sfogo alla propria bruciante passione per il classic rock.
Ed ecco così che dall’impeto creativo della band sono scaturiti brani come Days That Never Came e Mirror Magic Spirits; si tratta di tracce veleggianti tra hard rock e psichedelia, che non lesinano sprazzi free form, fughe chitarristiche e intermezzi di basso e batteria nel solco del più classico dei classic rock, che privilegia le parti strumentali ma non nega un ben delineato tratto melodico alle parti vocali.
In A White Light, invece, è una lenta canzone psichedelica e zeppeliniana, dal ritornello molto affascinante ed una chiusura contrassegnata da una splendida cacofonia. Anche Soulshine si configura come un hard rock fin troppo devoto ai Led Zeppelin ma convincente e trascinante tra riff uncinanti e torridi assoli di chitarra ed una voce che prova a planteggiare quanto basta.
River Of Dissillusion, invece, è rock duro e cadenzato a cui le tastiere forniscono un retrogusto tra Deep Purple e Uriah Heep, nonchè dai toni un po’ oscuri e misteriosi
Di contro Amaze My Mind è una traccia groovy eppure ancora sognante e psichedelica, che svela influssi british e addirittura beatlesiani
Jupiter´s dream, poi, esibisce fascino e grinta acida, così come All This Time, un brano soffice e soulful ma sempre influenzata dagli Zeppelin. Una bella ed affascinante conclusione.
All’ascolto di Bridge To Mars, dunque, sembra di prendere una macchina del tempo, e di tornare ai tempi di Cream, Led Zeppelin, Hendrix, pur se, come si diceva, a volte attraverso l’interpretazione di gente dedita al cosiddetto new classic rock.
Insomma, i Bridge To Mars non propongono nulla di rivoluzionario e di davvero originale, ma dimostrano certamente di essere in grado di far esplodere un sound carico di passione e di calore.
Francesco Maraglino