Recensione: Bridger

Di Fabio Vellata - 6 Settembre 2011 - 0:00
Bridger
Band: Bridger
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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63

Qualche buona ambizione non del tutto suffragata da esiti di primo piano per i Bridger, nuovo ensemble proveniente dall’underground statunitense nato per volere proprio di Glen Bridger, chitarrista invero non molto conosciuto a cui sono da ascrivere, oltre all’evidente paternità del moniker, anche la gran parte delle composizioni inserite in questo omonimo album di debutto.

Un rock spesso ammorbidito e dai contorni languidi (qualcuno potrebbe definirlo “moscio”), caratterizzato dal perenne occhieggiare al mainstream ed al consenso del grande pubblico, ed in cui riconoscere qualche hookline di classe effettivamente riuscita, oltre alla maiuscola prova di un singer di alta caratura come Terry Ilous (XyZ, La Famiglia Superstar, Great White e Cage, alcune delle collaborazioni illustri), sono la base stilistica entro cui intessere una serie di brani dal sapore mai troppo intenso ed altalenanti nei risultati.
Ispirato, almeno nelle intenzioni, dalle sonorità care a Mr. Big e Great White, il quartetto tende, infatti, ad arenarsi molto spesso su oziosi stilemi che sanno parecchio di stereotipato, fornendo in più d’una occasione, l’idea di un gruppo che viaggia costantemente con il freno a mano tirato e le pulsazioni d’energia regolate al minimo.

Ad ascoltare alcuni degli sprazzi di miglior estro, viene da pensare che con tutta probabilità, il talento ed il potenziale dei quattro musicisti non siano stati davvero sfruttati come si potrebbe e dovrebbe. Bridger appare quale chitarrista d’ottima tecnica ed intuito, la sezione ritmica composta dal vecchio compagno d’armi Greg Manhan (ambedue con un passato nei misconosciuti Head East) al basso e dal preciso session Dan Zoid alla batteria non perde colpi, mentre il commento tastieristico di Sam McCaslin (già collaboratore di Michael Schenker e Carmine Appice), si pone come contorno minimo ma essenziale. Il sempre carismatico Ilous infine, offre l’ennesima performance priva di sbavature, condita da personalità e charme.
Tutti ingredienti di buona qualità insomma, conditi da picchi di pregevolezza assoluta. Peccato però, che nel corso della tracklist capiti talvolta di provare parecchia pesantezza, ed il divertimento appaia come un ricordo sbiadito riferibile a qualche band provvista di maggior grinta e convinzione.

Canzoni che sembrano quasi voler scimmiottare certo hard-pop “usa e getta”, si rincorrono con troppa facilità, conferendo al disco un alone d’inconsistenza tale da renderlo insipido e raramente incisivo. Una traccia d’apertura come “Tuesday Afternoon” non lascia, ad esempio, presagire particolari fuochi d’artificio o cose memorabili: sempre votati ad un rock che non assume colori accesi e dal quale traspare un quantitativo di “passione” forse volutamente limitato, i quattro musicisti danno l’impressione di giocare spesso al risparmio, quasi a cercare di non intimidire gli strumenti, o piuttosto, i potenziali ascoltatori, che supponiamo essere identificati – proprio dall’ideatore del progetto – all’interno di un target quanto più possibile ampio e cospicuo.

C’è del buono: un po’ di blues notturno in “Good To Be Home”, alcuni assolo di gran gusto nelle battute finali di “How Long”, qualche linea melodica centrata nelle bucoliche e distese “Without a Sound” e “Free” oltre al (finalmente) acceso hard rock di “Gonna Get Better”, episodio che fa tornare alla memoria i Danger Danger di “The Return Of The Great Gildersleeves” con Paul Laine alla voce.
Ma c’è soprattutto un’aria “piaciona” ed un “feeling” davvero troppo rilassato che rende l’idea di quanto questa prima release dei Bridger, tenti di arruffianarsi il consenso di un audience non proprio di appassionati dediti all’hard rock, quanto più di fruitori occasionali, cui una schitarrata piazzata ogni tanto in bella mostra non spiaccia affatto. E da un minimo da pensare, il fatto che il brano migliore del disco sia una cover, quella riuscita e tonante della straordinaria “Heaven And Hell”, momento in cui Ilous dimostra i gradi del vero fuoriclasse avvicinandosi di molto all’espressività dell’immortale Ronnie.

Come diceva il più classico dei proverbi: “un colpo al cerchio ed uno alla botte”.
Il rischio però è concreto. Quello, alla resa dei conti, di non convincere appieno nessuno.

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Tracklist:

01. Tuesday Afternoon
02. How Long
03. On the Ledge
04. Don’t Push Me
05. Without a sound
06. Free
07. Live for the Moment
08. Good to be Home
09. Gonna Get Better
10. Once in a Lifetime
11. Heaven and Hell (tribute to Ronnie James Dio)

Line Up:

Terry Ilous – Voce
Glen Bridger – Chitarre
Greg Manahan – Basso
Danzoid – Batteria e Percussioni
Sam McCaslin – Tastiere

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