Recensione: Bright
I Bright sono un’evoluzione dei Ghost Train, gruppo fondato nel 2015 dal chitarrista Marco Da Rold. Dopo diversi cambi di line up e il rilascio di due dischi (nel 2017 e nel 2019), la band vira in modo deciso verso un Hard Rock i cui riferimenti più evidenti sono Black Sabbath, The Who e Cream e, contestualmente, cambia il proprio moniker in Bright. Con una formazione finalmente assestata che vede, accanto al già citato Da Rold, Emanuele Bonati alla voce, Renzo Carbone al basso e Daniela Usardi alla batteria, nel 2021 il combo pubblica l’omonimo album “Bright”, un compendio di molteplici sfumature di Hard Rock.
Alcuni pezzi suonano in modo decisamente classico: ne sono esempi l’apripista di impatto “The Shelter” e la successiva “Coming Down” di impostazione Retro, ma con arrangiamenti e produzione moderni che le rendono per certi versi affini al Grunge. Anche “Stars and Crumbs” è di derivazione Classic Rock, ma in questa traccia prevalgono le venature Southern a definire atmosfere che richiamano i Lynard Skynard. Un approccio classico è rintracciabile pure in “Up and Down the Canyon”, un Blues funkeggiante che si appesantisce nella sezione finale, e nelle schitarrate à la The Who di “Galleries of Your Mind”.
Vi sono poi brani in cui i Bright, pur non scordando le proprie radici, tentano di andare oltre, con risultati indubbiamente migliori. Tra questi troviamo la ruvida “Rules” che, con le chitarre fangose e gli assoli psichedelici, si orientata verso uno Stoner anni Novanta di scuola Kyuss. Oppure “Blind Gare”, che strizza l’occhio all’ Indie, e “Liquors, Lips and Lead” e la closer “The Haunt of the Sleeping Dog”, caratterizzate invece da un approccio lisergico creato dall’interazione tra effetti di chitarra, riverberi e linee vocali dall’andatura vagamente ipnotica.
Anche grazie al supporto di una produzione moderna, ma diretta e senza inutili orpelli, e di una registrazione professionale, i Bright riescono a mettere a punto una proposta sfaccettata, veicolando pezzi ben scritti ed eseguiti, spesso arricchiti da pregevoli assoli di chitarra. Altro punto di forza è che i ragazzi si tengono ben lontani da quelle soluzioni Pop eccessivamente orecchiabili che rappresentano la trappola in cui spesso cadono diversi rockettari nostrani.
È corretto aggiungere che, proprio per via dei numerosi sottogeneri esplorati, che pur rimangono all’interno del vasto contenitore dell’Hard Rock, non sempre i Bright riescono a imprimere una convinta rielaborazione ai propri pezzi, con il risultato di risultare un po’ derivativi in alcuni passaggi. Forse sarebbe più fruttuoso provare a restringere il campo, focalizzando il songwriting su un ventaglio più contenuto di direzioni stilistiche e su queste concentrare lo sforzo compositivo. Ciò detto, questo self titled è in generale più che convincente, ricco com’è di spunti interessanti e contraddistinto da un buon livello tecnico. Non faccio fatica a credere che, apportato qualche aggiustamento qua e là, i prossimi capitoli della discografia della band potrebbero riservarci sorprese interessanti.