Recensione: Bring Out Your Dead
Come a volte accade, dalla voglia di dar sfogo a idee e pulsioni diverse da quelle profuse nella formazione principale nascono i cosiddetti ‘side-project’, che i musicisti mettono su quasi a guisa di valvola di sfogo per ciò che vorrebbero ma che non possono.
È il caso degli ellenici AmongRuins, nati nel 2011 dalla mente di Sverd che, assieme ai compagni George Tzitzifas e George Thanasoglou, ha deciso di dare un taglio più aggressivo al sound dei Bare Infinity, forse troppo rarefatto e sinfonico per i suoi gusti primigeni. Una decisione talmente radicale, in ogni caso, da indurre i tre a lasciare la band-madre per dedicarsi anima e corpo a quella secondaria, diventata quindi, a inizi 2012, una ‘full-time band’ a tutti gli effetti.
Così, giusto il tempo di affilare le armi, e arriva il debut-album, “Bring Out Your Dead”, prodotto da Victor Berkan, missato e masterizzato presso gli Studio Victory. Un’Opera Prima che già dai primi minuti svela un suono grezzo, diretto e frontale, senza fronzoli; ben lontano, quindi, dalle eteree atmosfere elaborate dai Bare Infinity. Il death metal degli AmongRuins, occorre evidenziarlo subito, possiede un’anima particolare. Un’anima che dà vita a una creatura dai marcati segni particolari. Senza rivoltare il genere da capo a coda, il sound del quartetto greco manifesta una buona dose di personalità. Sarà forse quel pizzico di vecchia scuola, oppure la melodia sparsa un po’ qua un po’ là (“Face Of Plague”), o anche certi stop’n’go che sanno di nuovo, o magari la congenita aggressività. Il tutto, insomma, conduce a una proposta che si lascia riconoscere con una certa facilità. Un buon biglietto da visita, insomma, per un ensemble (teoricamente) alle prime armi.
Tutte particolarità che si possono cogliere, per esempio, in “Dead Moon And Sky”. Un incipit quasi da power metal lascia il campo ai ruvidi breakdown del ritmo per accelerare, via via, verso le frontiere dei blast-beats; percorso in cui il roco growling di Sverd fa da spirito-guida per raggiungere l’asfissia sonora, peraltro ricamata dagli inaspettati ceselli della sei corde. Se poi si passa alla successiva “They All Will Remain”, lo sfascio comincia immediatamente: BPM da follia sconquassano l’etere, guidate stavolta dallo scream del vocalist. Per rallentare sino alle lente, marcate battute degli stop’n’go. In una terremotante alternanza di ritmi da abbattere un carro armato.
Pare evidente, insomma, la voglia di Sverd e i suoi compagni d’avventura di non lasciarsi ingabbiare in cliché precostituiti; prediligendo un approccio che abbia come obiettivo primigenio l’imprevedibilità. Tanto più che, nondimeno, in taluni contesti emerge con forza l’innegabile natura melodica (“Home Of The Silent”) posseduta dagli ateniesi. Proprio questa song, a parere di chi scrive, rappresenta il corretto compromesso fra un’insita tendenza all’armonicità, chiaramente e volutamente repressa nel disco, e la furia demolitrice che muove ugola e mani del quartetto.
Prendendo nel complesso “Bring Out Your Dead”, per concludere, sembra che gli AmongRuin, pur essendo a estrinsecare efficacemente il proprio stile, non siano riusciti a incanalarlo correttamente in tutte le canzoni. Qualcuna di essa, difatti, appare ancora un po’ acerba, cioè confusa su quale filosofia privilegiare, su quale direzione da intraprendere definitivamente. È un difetto superabile, poiché, al contrario, il lavoro nel suo insieme odora inequivocabilmente di… AmongRuin. Si tratta di dettagli, quindi che, se messi a posto, potranno rendere ai fan un gruppo in grado di regalare loro qualcosa di più.
Daniele “dani66” D’Adamo
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