Recensione: Bringer of Drought
Arrivano dal Canada, stavolta, anziché dagli Stati Uniti, coloro che formano la marea dei nuovi interpreti del death metal incrociato con il doom. Si chiamano Phobocosm, e oltrepassano l’Oceano con il secondo album in carriera, “Bringer of Drought”, il seguito di “Deprived”, full-length d’esordio uscito due anni fa.
Il modus operandi del quartetto di Montreal è abbastanza tipico: sound old school, ritmi tendenzialmente lenti, song dalla lunghezza quasi insostenibile. Growling rabbioso, liquido, che pare gorgogliare fiato nel sangue. Monotono. Tendente a ricoprire tutto e tutti come un’immane marea nera, soffocante, opprimente. In particolar modo durante gli estesi archi temporali in cui le battute si trascinano con mestizia e languore, come a coprire, ad avvolgere, a occludere le vie respiratorie (‘Engulfing Dust’).
Poi, improvvisa, l’aberrazione dei blast-beats. Non prevedibile, giacché la tendenza è in linea con l’incedere da celenterato. ‘Tidal Scourge’, l’emblema di tale filosofia musicale, è un inno all’alternanza. Con una costante: E.B. e le sue vocals, che non si schiodano mai, nemmeno per un istante, dal roco ruggito che appiattisce impietosamente abissi e vette in una sterminata pianura riarsa. Secca, coperta da fili d’erba ingialliti, ovunque.
Una caratteristica forte, anzi predominante, nel suono dei Phobocosm. Non ci sono mezze misure, conseguentemente. O si accoglie benevolmente come segno identificativo certo, oppure si rifiuta in virtù di una sensazione invincibile di noia. Cercando di essere quanto più possibile oggettivi, è difficile immaginare che le quattro suite di “Bringer of Drought” possano scatenare emozioni talmente evidenti, in chi ascolta, sì da far ripetere varie volte l’ascolto del disco. Al contrario, più si tenta di compiere il viaggio con i Nostri, più aumenta la sensazione di essersi impantanati in uno stagno di sabbia in cui non si vedono le rive. Dal quale, come in un incubo, non si riesce a uscire, continuando invece ad affondare sempre più in profondità, in direzione dell’inevitabile annegamento.
L’idea dei Phobocosm, in sostanza, non sarebbe male. Death metal cupo e ossianico, richiamante in sé molti dettami del ridetto doom. Forse troppo abusato, in quest’ultimo periodo, detto per inciso. Abusato poiché il death stesso ha già nel proprio DNA la componente oscura che gli ensemble come i Phobocosm stessi cercano altrove con tanta determinazione. Troppa, determinazione. Giacché, alla fine, ciò che si materializza, tipo “Bringer of Drought”, proprio per indicare un esempio non a caso, non soddisfa nessuno dei due generi che vorrebbe, nondimeno, gratificare.
Inoltre, ed è questa la pecca più grave del platter, c’è la ripetitività del songwriting, abbarbicato su alcune soluzioni iterate sin quasi alla nausea. Tanto che, volendo essere nuovamente e cocciutamente oggettivi, analizzando freddamente la situazione, non pare ci sia alcuna differenza fra una canzone e l’altra. Come se “Bringer of Drought” fosse composto da un solo, solitario, triste brano.
Così, se di esperimento si trattava, è fallito.
Daniele D’Adamo