Recensione: Brotherhood
E riecco, inossidabile come un panzer della seconda guerra mondiale, tornare sulla scena Mathias Lasch, meglio noto come Mat Sinner. Leader appunto dei Sinner, la storica formazione tedesca che nel 2022 giunge a quarant’anni esatti di carriera. Per celebrare questo prestigioso traguardo ecco arrivare fresco, fresco un nuovo album, il ventesimo della loro discografia. Una carriera certamente ragguardevole per la formazione teutonica che vanta fondamenta solide con il leader Mat Sinner affiancato da Tom Naumann – presente nella band dal 99 – insieme ad Alex Scholpp alle chitarre e Markus Kullmann alla batteria. Una compagine che nonostante ruoti intorno alla figura dello storico cantante e bassista è comunque fondata su solidi principi di amicizia e fratellanza nel nome della passione per la musica. Ed è proprio per meglio celebrare questa fratellanza che il titolo scelto è Brotherhood.
Uscito a tre anni di distanza dal precedente Santa Muerte in cui Mat divideva le parti al microfono con Giorgia Colleluori, questo nuovo capitolo recupera lo storico vocalist quale unico cantante. Miss Colleluori rimane presente comunque in un brano, ulteriore aggiunta alla nutrita serie di ospiti presenti. Dave Ingram, Erik Martensson, Lisa Müller, Mark Basile, Neil Witchard, Oliver Palotai, Ralf Scheepers, Ronnie Romero, Sascha Krebs, Stef E, Tom Englund…tanta roba…
Registrato ai Backyard Studios & at Apollo 13 Audio, e mixato dal vecchio amico di Mat, Jacob Hansen presso gli Hansen Studios in Danimarca, con Brotherhood i Sinner rimarcano ancora una volta la loro posizione di prestigio nel panorama metal mondiale.
Il disco parte deciso con Bulletproof, un heavy metal ruvido ma con la giusta dose di melodia. Sulle stesse coordinate We Came To Rock, irruente come una badilata sulla schiena, con cui i Sinner ci fanno presente di essere tornati. Un riff di chitarra trascinate della coppia Scholpp/ Naumann apre Reach Out, un potente brano hard and heavy in sintonia con le cose più recenti fatte dai Saxon.
Si giunge alla volta della tittle track, un coinvolgente anthem sulla base musicale di un power venato di hard rock impreziosito da un bell’assolo di chitarra. Un pezzo quest’ultimo in cui oltre alla fratellanza e la coesione tra i membri della band, i Sinner rimarcano il concetto di coerenza musicale che ha sempre caratterizzato la loro storia. Un album in effetti, nel quale la formazione teutonica rivitalizza le qualità che li hanno contraddistinti da quattro decenni a questa parte.
Refuse To Surrender si presenta con la vesti di un mid tempo dalle tinte oscure, che troviamo presenti anche nella successiva The Last Generation, un pezzo lento e cupo che mette in evidenza delle suggestive atmosfere dark e gotiche.
Gravity si apre con un arpeggio malinconico che cede subito il passo ad un riff di chitarra dal forte sapore thrash. Il tiro rallenta ancora prima del funambolico assolo per riprendere poi vigore nel finale con il rabbioso ritornello.
Anche The Man They Couldn’t Hang si presenta come un brano spigoloso con riff taglienti dove però i Sinner si concedono un inaspettato intermezzo orchestrale ad opera di Oliver Palotai dei Kamelot.
The Rocker Rides Away si mantiene sempre su velocità sostenute con le sue sfuriate power che a volte sfiorano i confini di un certo thrash. Delle sirene annunciano My Scars, un mid tempo dalle massicce strutture ritmiche con le chitarre che graffiano mentre la batteria di Markus Kullmann scandisce un martellante incedere marziale.
Ed arriviamo così verso le battute finali in cui i Sinner mostrano un po’ di pietà per le nostre cervicali provate dall’headbanging a cui sono state sottoposte fino ad ora. 40 Days 40 Nights è una gradevole ballad meditativa dalle atmosfere tristi.
Come pezzo di chiusura infine troviamo When You Were Young, cover degli statunitensi The Killers. Forse una scelta un po’ inedita quella di coverizzare una band relativamente recente rispetto alla storia dei Sinner e musicalmente anche un po’ differente da quanto invece proposto dalla compagine tedesca.
Sta di fatto che il risultato finale è comunque molto apprezzabile e denota una certa originalità, oltre che versatilità. Senza dubbio più di quanto avrebbe avuto quella di riprendere un pezzo dei Judas Priest o Black Sabbath, magari più affini a quanto proposto dai Sinner ma senz’altro più prevedibile e scontata come scelta.
Brotherhood è un lavoro come ci si aspetta dai Sinner.
Un album che nonostante non esca dai binari di quanto fatto negli anni offre comunque degli spunti interessanti. Un blocco di granito, solido e compatto, con il quale Mat Sinner e soci tengono ancora viva la fiamma accesa nel 1982 con Wild N’Evil.
Un modo molto convincente con cui farci capire che in barba ai quarant’anni di attività, i Sinner ci terranno compagnia ancora per un po’.
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