Recensione: Burton’s Odyssey
«The sea is everything»
Prosegue l’infinito viaggio negli abissi oceanici, da parte dei francesi Atlantis Chronicles. Stavolta con la batisfera di Otis Barton (05-06-1899 ÷ 15-04-1992), inventore, attore e scrittore americano che, negli anni ’30, sperimentò leggendarie immersioni profonde.
Batisfera che prende il nome di “Burton’s Odyssey”, secondo full-length della band transalpina che segue a distanza di tre anni l’ottimo debutto avvenuto con “Ten Miles Underwater”. Con formazione invariata a parte il bassista, cioè con Simon Chartier al posto di Mikael Rumbèbe.
Già nel 2013 gli Atlantis Chronicles avevano fornito prova di grande competenza tecnica e soprattutto di personalità; grazie a un sound esplosivo, titanico e perfettamente formato. Qualità che, ovviamente, si ritrovano inalterate se non addirittura migliorate anche in “Burton’s Odyssey”. Il deathcore che contraddistingue le dieci tracce del disco è praticamente da enciclopedia. Impeccabile nel rispetto degli stilemi teorici, impressionante nell’esecuzione. Tanto, che appare quasi riduttivo discutere di deathcore, appunto. Ormai, la gamba nel technical death metal c’è quasi tutta. Tuttavia, comunque, le tonalità secche, metalliche e taglienti tipiche delle fogge *-core sono sempre preponderanti, nello stile dei Nostri. Anche perché, alla fin fine, a fornire il giusto flavour a una proposta musicale sono le linee vocali, e quelle di Antoine Bibent sono maledettamente… harsh.
Gli Atlantis Chronicles pestano pesante, e la loro enorme coesione strumentale spinge costantemente il suono oltre la soglia del dolore, della sofferenza. Esattamente come l’abnorme pressione che, a cinquemila metri di profondità, mette a grande prova la resistenza delle membrane dei batiscafi. I timpani, allora, si dimenano per sfuggire, vanamente, alle bordate sparate da song terremotanti quali, per esempio, la devastante “Flight Of The Manta”. Anche se, è bene evidenziarlo, rispetto a “Ten Miles Underwater” c’è una maggior ricercatezza melodica. Nella stessa canzone appena citata, infatti, si possono cogliere attimi d’intensa visionarietà grazie a break lenti e sinuosi, incagliati in propaggini ambient dal tono cinematografico.
L’insostenibile pesantezza di brani quali “I, Atlas”, però, forse, rappresenta al meglio la tipicità del sound dei cinque parigini, davvero irresistibile quando il ritmo oltrepassa la crosta della sfera del suono, cioè quando Sydney Taieb scatena i suoi terremotanti blast-beats. Fermo restando che “Upwelling – Pt. I” e “Upwelling – Pt. II” sono due capolavori di rara impetuosità emotiva, nonché mirabili esempi di dolcezza unita a brutalità, l’insieme dei pezzi di “Burton’s Odyssey” non pare ad ogni modo avere la medesima freschezza innovativa di quello di “Ten Miles Underwater”. Come se si fosse esagerato con la razionalità compositiva, intrappolando la creatività. Quella sciolta, libera, istintiva. Generando, per l’appunto, quel senso di stanchezza di cui si scriveva più su e che si può percepire per esempio in “50°S 100°W”, troppo complessa e difficile, tale da essere quasi indigesta.
È chiaro che si tratta di dettagli. Il grosso è di altissimo livello, e “Burton’s Odyssey” è e rimane un lavoro straordinario. Tuttavia, stavolta, almeno a parere di chi scrive, gli Atlantis Chronicles hanno esagerato con i tecnicismi. Evitando, con ciò, di aver lasciato andare il cuore al 100%.
Come, chissà, avrebbe dovuto essere.
Daniele D’Adamo