Recensione: Bury Your Gods

Di Daniele D'Adamo - 28 Settembre 2024 - 0:00

«L’album si addentra nel mondo della pre-astronautica, introducendo l’entusiasmante idea che l’Umanità non sia sola nell’Universo. Discute la tesi secondo cui una razza aliena ha visitato la Terra durante il periodo degli antichi Sumeri, la quale ha condiviso la sua conoscenza e tecnologia per la costruzioni delle costruzioni piramidali. Le song esplorano l’affascinante concetto di una divinità aliena che chiede di emarginare gli dei terrestri alla luce di una potenziale invasione, con l’invito alla sottomissione al dio alieno»

È questo il credo dei Deliver The Galaxy, ribadito ancora una volta nel loro terzo lavoro in studio, “Bury Your Gods“.

Il combo teutonico si aggrega, come stile musicale, al melodic death metal, sottogenere nobile che, in Germania, sta avendo un inaspettato ritorno con numerosi act di livello internazionale. Inaspettato, giacché il melodic viene dato per morto ogni anno; anno in cui, al contrario, serra e rinforza le sue fila.

Bury Your Gods” ne è un esempio lampante, con il suo stile multiforme che, quando s’arrabbia, non si fa alcun problema ad attaccare la giugulare del nemico. Aggressività, quindi, unita a tanta, tanta potenza. Per un sound possente, massiccio, tuttavia ricco di melodia. Di quella buona, per intendersi al volo.

L’antitesi fra fragore e delicatezza è uno dei pilastri portanti del melodic death metal, e i Deliver The Galaxy ne fanno uso in abbondanza, se così si può dire. Le armonie che riempiono il disco compaiono ovunque, in ogni song, portando con sé, però, un pizzico di sapore di fantascienza. Una musica piuttosto visionaria, in certi frangenti, che dà davvero l’idea dell’esistenza di civiltà esogene, tecnologicamente avanzate rispetto a quella terrestre, che impongono una sorta di dominazione militaresca, tipo un Impero stellare o qualcosa di simile.

Risvolti atmosferici che si rinvengono, per esempio, nella violentissima “Get Down“, sorta di marcia di un ipotetico battaglione di extraterrestri. Colonna sonora per accompagnare i passi dei suddetti grigi, spingendoli alla corsa grazie alla spinta dei blast-beats. Corsa folle ma precisa, così come i pattern di batteria, ben ordinati, ben eseguiti, con scioltezza e semplicità anche quando i ritmi si fanno complessi.

Come spesso accade, l’attenzione cade in primis sul vocalist, non a caso detto anche frontman. Matthias Mente, anche chitarrista, mostra di saperci fare, con le corde vocali. Certamente i filtri fanno la loro parte nel modificarne i toni, ma le linee del canto mostrano una marcata declinazione verso un growling pressoché continuo. Magari non esagerato, bensì deciso, ricco di carattere, sicuro di sé. Un valido condottiero, un capo, per il resto della formazione della Sassonia. La quale, dal canto suo, lascia intravedere, e nemmeno poco, un approccio totalmente professionale alla questione.

A combattere per la libertà del genere umano dal giogo alieno ci sono le due asce da guerra, le due sei corde, che coprono tutto lo scibile in materia di metal estremo: riff tremendi, compressi dalla tecnica del palm-muting, a volte segaossa, a volte pesanti come macigni come in “Live.Die.Repeat“. Brano in cui, peraltro, vive una stupenda melodia cesellata dai suoni acuti delle chitarre. Il tutto accompagnato dal poderoso suono del basso di Danny Stoye, come si può immaginare vista dov’è l’asticella che identifica la vigoria.

Ad un certo punto, mentre scorrono i brani, arriva l’hit, “Shadows“, nobilitata da un ritornello clamoroso, di quelli che entrano in testa e non escono più. Una traccia, inaspettata, che mostra anche il lato brutale dei Nostri, scatenati in un assalto sonoro comandato dai blast-beats per dar luogo all’ossimoro perfetto! Da menzionare, pure, la title-track per via del monumentale muro di tastiere dalla melodia celestiale che si svolgono in sottofondo a supporto del chorus. Chiude la cinematografica “PE3” per chiudere il cerchio.

Una chiusura ermetica, esattamente come lo stile del quintetto teutonico, stile abbastanza originale da essere riconosciuto al primo ascolto. “Bury Your Gods” è un’opera completa, longeva, nella quale vagano molteplici particolari da scoprire a poco a poco per una definitiva immersione nella (fanta)scienza cui credono i Deliver The Galaxy.

Da avere.

Daniele “dani66” D’Adamo

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