Recensione: But Merely Flesh
Ritual Fog, un nome un po’ strano e inquietante per la band proveniente dagli Stati Uniti che, con “But Merely Flesh“, pubblica il proprio, agognato debut-album.
Nati nel 2021, essi hanno svolto una gavetta non eccessivamente cospicua. Il che è strano poiché, che piacciano o no, la loro qualità tecnico/artistico è di primo livello. Tant’è che una delle migliori etichette internazionali specializate nel campo del metal estremo, e cioè la Transcending Obscurity Records, li ha messi subito sotto contratto.
Lo stile proposto, difatti, presenta parecchi caratteri di singolarità, tali da rendere lo stile medesimo se non originale, almeno adulto e ricco di personalità. In esso, difatti, si trovano influenze di ogni genere o quasi. Crust, thrash, sludge che, comunque, non demoliscono la foggia musicale di partenza, cioè quella preponderante: il death metal.
In effetti quest’ultima non è una circostanza immediata da percepire. Solo l’attento ascolto delle partiture delle chitarre svela il principale segno caratteristico del death. Riff marci, fangosi, elaborati in modo da produrre una quantità continua di accordi scivolosi nel creare una sequenza senza intoppi nell’erigere il caratteristico muro di suono del metallo della morte (“Fog Sermon“). Riff che rammentano l’old school seppure non ne facciano parte. Altro modo, questo, a sostegno della corretta definizione di tutto ciò che hanno stipato su disco.
Ian Younkin, voce e chitarra, spreme la sua ugola sino a farla sanguinare. Le sue harsh vocals sono maledettamente aspre, e non mutano mai, a parte qualche rarissimo singulto growl, lungo l’arco del disco. Una prova coraggiosa che determina in primis la varietà di un genere che, di fatto, riesce a trovare con facilità la via Maestra ma che lo fa con un traino in cui sono riposte le contaminazioni più su citate.
Si ritorna sulle chitarre giacché il loro riffing, segnato a volte da assoli taglienti, si può immaginare come un estesissima pianura di granito su cui erigere la struttura musicale dell’LP. Comprendente, pure, qualche accenno di ambient (“Misticism“, “Demented Procession“).
La sezione ritmica spinge molto forte, con il basso che si unisce alla batteria per scatenare non solo blast-beats (“Carnal Pain“), ma anche per rendere le battute lineari e omogenei allo spirito di “But Merely Flesh“. Una mansione senza dubbio difficile data la carne al fuoco ma che viene svolta con precisione, senza che abbia mai la sensazione di aver davanti qualcosa di caotico, date le premesse.
Al contrario, la difficoltà su citata rende nel suo insieme il platter compatto, relativamente semplice da digerire, tenuto assieme dalla forza del combo di Memphis, la quale si percepisce solo dopo qualche iterato ascolto, preso atto dei numerosi elementi in gioco.
Anche le song seguono la filosofia fondante dei quintetto americano. Piuttosto varie ma aderenti al loro stile. Obbedienti al volere del songwriting nell’essere oggetto di contaminazioni trasversali ma allo stesso tempo fidate compagne nel restituire un sound variegato, mutevole e – perché no? – piacevoli da mandare a memoria una volta scoperta la loro chiave di lettura.
Come spesso accade in questi episodi sostanzialmente sperimentali, ciò che esce dagli speakers non è roba per tutti. Di questo insieme fa parte indubbiamente “But Merely Flesh” che, in quasi mezz’ora di durata, esprime numerosi concetti musicali del tutto personali. Si tratta, insomma, della classica opera che piace o non piace a seconda dei gusti personali.
Su un fatto però non c’è dubbio: onore ai Ritual Fog per aver tentato di uscire dai soliti schemi, dai soliti cliché. Senza esagerare bensì equilibrando abilmente stili eterogenei al death metal per creare una propria identità.
Daniele “dani66” D’Adamo