Recensione: C T R L
Gli austriaci Mastic Scum hanno mosso i primi passi nel mondo del death metal nel lontano 1992 ma, a dispetto della loro anzianità, quello che propongono non è, come magari ci si aspetterebbe, qualcosa legato all’old school. Al contrario, si tratta di una modernissima forma di cyber death metal. Del filone dei Fear Factory e progenie, tanto per rendere al volo l’idea.
E sì che i Nostri di strada ne han fatta, fra la pubblicazione di un demo, due EP, sette split, un live album, una compilation e cinque full-length. Un percorso che li ha proiettati nel futuro anziché nel passato come tante volte accade giacché l’ultimogenito, “C T R L”, presenta in sé tutte le caratteristiche, nessuna esclusa, della derivazione death che fa della cibernetica la propria filosofia portante. Invece che dedicarsi ai moti dell’anima e delle emozioni, magari morbose e malate per la carne morta, insomma, i Mastic Scum preferiscono dedicarsi al controllo delle macchine. Un’operazione che viene trasfusa con grande veemenza nella musica, i cui dettami stilistici conducono a una visione non-umana della musica stessa. Come accade fra coloro che si dilettano, assieme alla band di Burton C. Bell, a descrivere dell’armonia d’ingranaggi, software e computer (Treat Signal, Scar Symmetry, Arkaea, Sybreed, The Kovenant, Vortech), i Mastic Scum si basano su un approccio stilistico che predilige l’erogazione del suono con modalità ‘on/off’, quasi a simulare numerosi interruttori posizionati in serie e/o in parallelo. Non si tratta degli stop’n’go/breakdown tipici dei generi *-core, ma di un continuo, insistente avanzamento che ricorda la ripetitività di movimento classica dei meccanismi.
Costruendo quindi il proprio sound su questi concetti, il combo di Salisburgo dà vita a una struttura robustissima, eretta sul compatto muraglione di suono costruito dai micidiali riff di Harry Gandler. Riff secchi, non particolarmente ribassati come tono, che iterano se stessi; compressi, possenti e quadrati. Che, assieme al basso di Alexander Schmid e alla batteria di Man Gandler, non disdegnano di affondare il piede sull’acceleratore per sfondare la barriera dei blast-beats. L’acre, roco, stentoreo growling Maggo Wenzel è l’ideale complemento, allora, per uno stile che fugge dalla melodia per cercare una brutalità a volte parossistica. Certo, i campionamenti ambient ci sono, e sono pure numerosi, ma servono esclusivamente a rifinire l’atmosfera industrial del platter; ben lungi, pertanto, dal proporre, per esempio, parti in clean vocals per spezzare l’imperante aggressività. Anzi, pare proprio che i Mastic Scum ci tengano parecchio, a possedere un sound semplicemente devastante.
Da “Controlled Collapse” a “Resurrection”, quindi, non ci sono né stacchi né interruzioni: il death scorre fluido, aggrovigliandosi fra i meandri di mid/up-tempo e le sfuriate dei blast-beats; riuscendo appieno ad alimentare una fitta nebbia grigia sulla quale proiettare le nitide visioni futuristiche elaborate dalle menti dei quattro. La mostruosa monoliticità del suono, però, rappresenta anche un limite alla creatività, che tende a livellare la personalità di ciascuna canzone. Avendo ben chiaro quale sia lo stile-madre da cui derivare i vari brani (e questo è un pregio…), i Mastic Scum non pare siano in grado di differenziarlo adeguatamente. Non è un caso, difatti, che i brani medesimi si somiglino un po’ troppo, reiterando non solo i loro loop interni ma, anche, se stessi.
Nonostante questa mancanza di movimento e agilità nella struttura compositiva delle song, l’insieme è davvero devastante: i Mastic Scum sembrano un treno in corsa, inarrestabile, non mostrando mai una minima indecisione, un piccolo tentennamento nel processo d’incanalamento su traccia musicale dell’enorme potenza sonora a loro disposizione. Una coesione e una tenacia che fa loro onore ma che, alla lunga, finisce per essere… ripetitiva.
Daniele “dani66” D’Adamo
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