Recensione: Caldera
Finalmente, anche per i Pillar Of Light, giunge il momento del debut-album. “Caldera“.
Debut-album il quale mostra sin da subito una decisa personalità, non sempre distinguibile nelle opere prime in quanto, esse, si dibattono ancora in un’acuta fase embrionale. Ma non solo personalità, però. Anche lo stile, il post metal, appare chiaro in tutte le sue tenui colorazioni. Poco da fare, insomma, Aaron Whitfield (voce e sintetizzatori) e i suoi compagni di avventura, oltre che essere musicisti dal deciso taglio professionistico, hanno ben chiaro in testa ciò che devono vergare sul rigo musicale.
Il post metal è difatti genere di non semplice approccio. Spesso è l’ultimo tassello di un percorso che, come nel caso in esame, passa prima dal doom e poi dallo sludge. Entità che, già di per sé, contengono il germe della mestizia, della malinconia e soprattutto della nostalgia. Emozioni volte a un approccio si potrebbe dire definitivo alla vita reale di tutti i giorni.
Ben si sa che il post metal è parente stretto dello shoegaze, sottogenere che, nel nome, indica la tendenza degli attori a chinare la testa in segno di avvilimento e, quindi, a osservare le proprie scarpe. Operazione che, in “Caldera“, avviene di continuo, senza che muti il suo umore al variare dei brani che lo compongono.
Whitfield, con la sua interpretazione, può considerarsi la guida del combo di Detroit. Le sue linee vocali sono aspre, asciutte, agre, ricordando molto da vicino le harsh vocals nell’esprimere un ampio senso disperazione e di dolore, a volte pure di rabbia. Per coloro che nascono con un animo particolarmente sensibile, le brutture del Mondo corrispondono ad azioni impossibili da comprendere, da digerire, da combattere. Meglio abbandonarsi alla riflessione, quindi, e reagire all’orrore terreno con la musica.
Che, in questo caso, osserva il tutto come se fosse seduta su un’immaginaria altalena fra morbide e delicate armonie (“Eden“) e possenti capisaldi monumentali, ove i toni delle note e degli accordi salgono di potenza (“Wolf to Man“). I ritmi sono tendenzialmente bassi, come del resto ci si poteva aspettare dato la foggia artistica in gioco, tuttavia il sound è pieno, possente, addirittura spiazzante quando entrano in pista, ma per pochissimo, i blast-beats (“Infernal Gaze“). Bisogna anche tenere conto che la formazione del Michigan è in grado di inspessire il sound stesso con la tangibile presenza dei sintetizzatori di Whitfield e di Alex Kennedy, quest’ultimo anche chitarrista.
Chitarre dal suono sporco, arrugginito, non particolarmente distorto, che tengono su una sezione ritmica come s’è detto imponente, solenne. Ricamando il grigio/marrone che permea l’LP sino al midollo con orpelli e disegni che, come il fuoco, lasciano la cicatrice a mò di memoria.
Le canzoni si svelano a poco a poco, dimostrando, con questa particolarità, che sono ben diverse le une dalle altre. Il che, nuovamente, va ad aumentare i punti a favore del disco. Il quale si chiude con una traccia semplicemente incantevole, “Certain End“. Splendida suite contenente tutto ciò che gli statunitensi sono riusciti a espellere dai propri strumenti sporcati dalla mota unitamente a un’ugola sanguinante. Qui lo sgomento è totale, assoluto. Sgomento per la percezione di tutte le sofferenze che patiscono gli esseri umani solo per il fatto di essere… esseri umani. L’andamento suadente della song porta, a poco a poco, Whitfield a urlare tutto lo scoramento che vaga nel vuoto interstellare per aderire alle persone. Le chitarre piangono lacrime amare, indirizzate nell’infinito dai giri di basso e dai pattern della batteria.
Così, quando il tormentato ma coraggioso viandante si trova a remare dolcemente nel lago dello sconforto, ecco che il fluttuare della sua imbarcazione lo proietta in direzione dei momenti più intensi che la meravigliosa visionarietà del post metal dei Pillar Of Light riesce a esprimere. Perché, accanto alla percezione del tangibile, c’è l’immaginazione. Il pensiero per qualcosa che non è visibile ma che taglia l’anima in due.
Per questo e tanto altro, “Caldera” è da ascoltare a occhi chiusi.
Daniele “dani66” D’Adamo